Karol, la gatta Mefis e il «bambino» ribelle a Roma
di Anna Maria Merlo
Cara Rossana, l’ultimo ricordo che ho di te è il bicchiere di champagne che abbiamo bevuto un grigio pomeriggio di inverno nel 2019, a casa tua, poco prima della tua partenza definitiva da Parigi per Roma.
Per soffocare la melancolia dell’assenza annunciata, con un gruppetto di amici, quella volta abbiamo parlato solo di cose pratiche, il problema del trasporto dei libri, come portare Mefis, il gatto nero, sempre indifferente a tutto.
Nei lunghi anni che hai trascorso qui, era diventata un’abitudine vederci, due-tre volte al mese, venivo da te alle 5 del pomeriggio, fino a sera. Di cosa parlavamo? Di politica, ma non troppo, soprattutto se italiana, la Francia sì, Macron e Paul Ricoeur, la colpevole leggerezza di Hollande, la brutalità di Sarkozy, Chirac interessava meno. Il tremendo momento degli attentati, la società che sbanda, discussioni con amici, come Etienne Balibar.
Sono stati anni difficili anche nel privato, per te. Il periodo finale di Karol, seduto nella sua stanza, come erano lontani i pranzi da Lipp di un’epoca più felice, era arrivato il giorno in cui hai dovuto compilare i fogli della burocrazia per il funerale del tuo brillante marito e rispondere a domande impossibili, dove erano sepolti i genitori, scomparsi nella Shoah.
La tua malattia, anche, l’ospedale e poi il soggiorno, per fortuna breve, in una tremenda clinica con poco personale, dove non mangiavi quasi più, ti servivano cibi inscatolati che non riuscivi ad aprire con una sola mano. Con Mario Pianta ti abbiamo portato della bresaola.
Mi parlavi spesso del passato, mi hai raccontato molte cose di tua mamma, la guerra, le difficoltà economiche. Le scelte tue e di tua sorella, diventata medico.
Avevi una passione, la storia dell’arte, per un certo periodo avevi pensato di dedicarti a questo. Quando venivo da te con mio marito, Francesco Poli, si parlava di arte, delle mostre in corso.
Quando eri studentessa avevi scritto una lettera al pittore torinese Felice Casorati per chiedergli di mandarti una fotografia di un suo quadro che ti era piaciuto.
A Milano, come responsabile della Casa della Cultura, avevi partecipato alle traversie varie che avevano accompagnato la grande mostra di Picasso nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale nel ‘53. Picasso non senza difficoltà aveva accettato il trasporto di Guernica, allora in deposito al Moma di New York, in attesa della repubblica in Spagna (o almeno della fine della dittatura).
Poi si era messo di mezzo Giulio Andreotti, che nel ’53 era già ministro di qualcosa e aveva pensato bene di vietare l’esposizione di un quadro di Picasso del ’51, Massacro in Corea, perché troppo antiamericano. Picasso era comunista: alla fine a Roma non l’hanno esposto, ma a Milano sì.
Storie di vita, con sempre uno slancio, passare al di là dell’ostacolo. Come quando tu giovanissima, di fronte a non so più quale grande dirigente del Pci, avevi continuato a difendere il tuo punto di vista anche se una calza ti stava cadendo.
Non parlavamo quasi del Manifesto, soprattutto dopo la grande crisi. Ma tu, come Karol del resto fino a quando ha potuto, leggevi sempre il giornale, anche dopo la frattura e ne commentavi i contenuti, sempre con grande rispetto anche quando non eri d’accordo.
Vedevi ancora i «vecchi» del giornale, che passavano da Parigi e venivano a trovarti, mentre i giovani giornalisti non li conoscevi quasi più. Scherzavamo, mi dicevi che ero una madre terribile e io ti rispondevo che anche tu, con il tuo «bambino», non eri meno severa.
Cara Rossana, la clivia che mi hai lasciato quando te ne sei andata quest’anno è fiorita per la prima volta.