Penelope al tempo del Covid …
di Gigi Spina
Come si sa – ormai lo sa anche chi non ha fatto il liceo classico – l’Iliade mostra, già al verso 10, una nousos kaké, sotto forma di frecce scagliate da Apollo contro animali e uomini, per vendicare il torto fatto al suo sacerdote Crise.
Feral morbo (Vincenzo Monti); mala peste (Rosa Calzecchi Onesti); malattia mortale (Maria Grazia Ciani); feroce malattia (Guido Paduano); morbo maligno (Giovanni Cerri); peste maligna (Daniele Ventre): comunque si voglia tradurre quel pericoloso sintagma, il nugolo di frecce scagliato da un solo arco, quello del primo diffusore divino, agisce proprio come un virus, l’uno che uccide i molti.
Poi ci fu la peste descritta da Tucidide, anche questo è ben noto. E poi Boccaccio (saltiamo tutta la fase tardo antica, meno nota) che, per fortuna, oltre a ricordare la peste, suggerisce un modo di affrontarla, per chi ne è rimasto immune: un modo di gestire l’ozio dell’isolamento, per chi può farlo senza particolari conseguenze, naturalmente.
Ovviamente si potrebbe continuare con Giorgio Gaber e La peste: siamo già al 1974. Cavolo, anche allora Milano e provincia, ma poi si capisce che è una peste politica, di cui però ancora non ci si è liberati del tutto.
E poi c’è una sorta di peste nascosta, un’invasione di parassiti, batteri metaforici che avrebbero voluto impadronirsi di un’isola, di un regno, di una regina, cominciando a tastare il terreno con le schiave ancelle. Così torniamo a Omero, ma al dopo-Iliade, ai Proci o pretendenti dell’Odissea, quelli che poi il vaccino Odisseo, sempre grazie a un arco, pensate un po’, riesce a sconfiggere, regalando il ritorno di una vita normale sull’isola. Che comunque rimane un’isola, con il suo isolamento dalla terraferma, ma soprattutto con la sua isolitudine. Parola abbastanza giovane, dovrebbe avere poco più di venti anni, che indicherebbe la «condizione esistenziale di appartenenza e di isolamento propria di chi è nato in un’isola». (si veda la definizione di “isolitudine” della Treccani)
Penelope non era nata su un’isola, ma su un’isola dovette andare a vivere, quando l’astuto Odisseo ottenne di averla in moglie dal padre Icario, potente Spartano. In realtà Odisseo era arrivato a Sparta insieme a troppi altri pretendenti, tutti re dell’Ellade, per sposare la cugina di Penelope, la bellissima Elena (sì, proprio quella Elena lì), figlia di Tindaro, re di Sparta e fratello di Icario, ma contemporaneamente figlia di Zeus, con Leda come unica madre. Odisseo capì che non ce l’avrebbe fatta (o forse s’innamorò a prima vista di Penelope) e allora propose uno scambio a Tindaro, preoccupato che i pretendenti respinti da Elena potessero ribellarsi, magari provocare una guerra. Lui gli avrebbe suggerito il modo di neutralizzare la delusione dei pretendenti non scelti; in cambio, Tindaro avrebbe dovuto convincere Icario a dare Penelope in sposa a Odisseo.
Insomma, Tindaro e Icario – lasciamo stare Zeus – si trovarono in una posizione un po’ rovesciata rispetto al padre di Aurélia (Lúcia Moniz), nel film Love actually, di Richard Curtis (UK, USA 2003). L’imbranato Jamie Bennett (Colin Firth) vola dall’Inghilterra in Francia la sera della vigilia di Natale perché ha capito di amare Aurélia, una ragazza portoghese che è stata la sua domestica in un piccolo cottage vicino Marsiglia, dopo il tradimento della fidanzata. Trovata la casa dove abita Aurélia, chiede al padre, che gli ha aperto la porta, di poter sposare sua figlia. Ma Aurelia ha una sorella, in verità non così bella. Il padre equivoca e chiama proprio lei. Jamie si affretta a chiedere di Aurélia.
Ma torniamo a Penelope che, come sappiamo tutte e tutti quasi da sempre, trova il modo di passare il tempo in attesa del ritorno sperato di Odisseo, ingannando i pretendenti: di giorno tesseva una tela, di notte la disfaceva.
Ora, se una metafora funziona in tutti i suoi risvolti, quella di Penelope dovrebbe essere un’indicazione utile per resistere a un virus, quindi proverò ad approfondirla, non senza aver prima fatto ricorso alla saggezza antica, quella che piace tanto a chi sa ricavare lezioni e insegnamenti dal passato, se non verità assolute e rassicuranti (non sarò certo io a deluderli/e dicendo che il passato greco e latino è fatto anche di molte cose che uno/a si augura non tornino mai e che, comunque, la distanza è tale che anche le cose condivisibili sono tali perché, in realtà, le si pensa oggi).
I proverbi sono il contenitore ideale della saggezza antica. Spulciando nel fondamentale Dizionario delle sentenze latine e greche, curato da Renzo Tosi per la BUR (la seconda edizione aggiornata è del 2017), il paragrafo su ozio, pigrizia e vita inoperosa, che va da p. 833 a p. 846, dal n. 1176 al n. 1196, confina proprio con un proverbio che riguarda Penelope: «fare il lavoro senza fine di Penelope, che mette mano alla tela in modo contrario».
Incoraggiato da questa coincidenza, sviluppo la metafora: quando si è assediati da un virus come quello che ci è piombato addosso, si può resistere e lottare quanto si vuole, ma intanto bisogna fare i conti con la prudenza, con il riposo forzato, con la noia, se non (speriamo di no) con la depressione.
E allora proviamo a sentirli questi proverbi antichi sull’ozio, perché magari, adattandoli a questa emergenza, può venire in mente qualcosa di utile, a portata di mano.
Le piccole frasi proverbiali non offrono un panorama univoco, al di là della loro frammentarietà o mancanza di contesto, come capita per ogni proverbio che la saggezza popolare tramanda nei secoli. Andando, però, a fondo, troviamo almeno due conclusioni contrastanti: che il riposo, anche se forzato, serve a rinfrancare corpo e mente; oppure, all’opposto, che il riposo alimenta i vizi, fiacca le forze; è, insomma una vergogna.
L’esilio, che può essere considerato come un riposo forzato, quasi un virus, costringe Ovidio, a Tomi, a sentire più forte il passare del tempo e l’avanzare della vecchiaia. Con l’aggravante della anxietas e della continua fatica. Questo vale per uomini, animali, cose. Se il tempo logora, anche l’esercizio continuo consuma: Otia corpus alunt, animus quoque pascitur illis. Solo il riposo riesce a rinfrancare e nutrire il corpo, riposo di cui riesce a godere anche la mente. Questa la riflessione di Ovidio nella lettera alla moglie dal Ponto (I 4,21).
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