Governo Dragi: cambiare tutto per non cambiare niente?
di Francesco Saraceno
OFCE-Sciences Po Parigi e Luiss Roma
Il governo Draghi è nato con un ampio supporto parlamentare dopo la crisi che aveva segnato la fine dell’esperienza giallorossa del governo Conte. Ma perché è nato questo governo? Quale sarà, o dovrebbe essere, la sua agenda?
La prima domanda è quella cui è più difficile rispondere. La caduta del governo Conte II era stata motivata da una gestazione non trasparente del Recovery Plan, ritenuto da alcuni ambienti da gettare, dai ritardi nelle vaccinazioni e dal rifiuto del premier Conte di richiedere il MES sanitario. A salvare la patria è stato chiamato l’uomo che con il whatever it takes nel 2012 aveva protetto Spagna e Italia dalla speculazione, impedendo l’implosione dell’eurozona. Dopo un mese di governo Mario Draghi ha di fatto operato nel segno della continuità con il governo che lo ha preceduto. Sulle restrizioni sanitarie, sul blocco dei licenziamenti, sul piano vaccinale e addirittura sul MES, Draghi si è scostato tutto sommato poco da Conte. Anche sul Recovery plan, già nel suo discorso di investitura in Senato, Draghi aveva affermato che non avrebbe stravolto la bozza Gualtieri-Conte, ma di voler solo “migliorarla e completarla”. È probabile che il piano definitivo che sarà presentato alla Commissione il 30 aprile non si allontanerà troppo dalla prima versione preparata dal governo precedente. Intanto perché ci sono solo poche settimane. Poi, perché l’impianto del piano Conte era meno sballato di quanto molti non volessero far credere. I progetti selezionati erano stati organizzati in modo coerente per tendere alla modernizzazione del paese e rispondevano ai criteri di destinazione delle risorse (transizione ecologica, digitalizzazione e coesione sociale) imposti dalla Commissione con le sue linee guida. Il governo Draghi riorganizzerà e apporterà modifiche al margine. È per questo che, se si cercano motivazioni che vadano al di là delle (pur legittime) ambizioni dei leader di piccoli partiti, è difficile comprendere perché il governo Conte sia caduto per essere sostituito dalla compagine di Draghi.
Ma veniamo alla questione più importante, l’agenda dei prossimi mesi. Quello di Draghi nasce come governo d’emergenza che deve portarci fuori dalla pandemia e avviare un programma di investimenti per rilanciare la crescita. Grazie all’UE, l’Italia avrà una somma considerevole per impegnarsi nei grandi progetti di modernizzazione del paese. Il programma Next Generation EU stanzia 209 miliardi di euro all’Italia, di cui circa 81 sovvenzioni (il resto sono prestiti a tassi preferenziali). L’ex presidente della BCE, insomma, non è chiamato dall’Europa a perseguire politiche di austerità. Al contrario, le autorità europee si sono mosse con rapidità per sostenere gli Stati membri nella loro opera di contrasto alla pandemia. La Commissione europea ha istituito programmi di prestiti preferenziali (tra cui il controverso MES sanitario che nessun paese europeo ha voluto prendere) e ha di fatto sospeso il Patto di stabilità che impone l’equilibrio dei conti pubblici. La BCE, dal canto suo, ha aperto un ombrello a protezione dei conti pubblici con il programma di acquisto di titoli pubblici che mantiene la differenza tra i tassi di interesse dei paesi dell’eurozona ad un livello storicamente basso. È per questo, oltre al fatto che i mercati hanno una massa enorme di risparmi da investire nel debito pubblico di tutti i paesi, che i tassi di interesse sono rimasti quasi fermi durante la crisi del governo Conte, nonostante essa fosse incomprensibile per la maggioranza degli osservatori estranei alle manovre politiche di casa nostra. Insomma, l’Italia oggi non è un fattore di rischio per la zona euro e Draghi potrà concentrarsi sul rilancio dell’economia senza preoccuparsi del debito.
Se sul piano vaccinale e sulla politica di rilancio degli investimenti non ci saranno cambiamenti drastici rispetto al governo precedente, Mario Draghi, invece, dovrà imprimere il suo marchio di fabbrica sulla componente “riforme” del piano di rilancio. Pur individuando correttamente le debolezze strutturali dell’Italia (fisco, giustizia, PA), la funzione pubblica, il piano Conte si era limitato a dichiarazioni di principio. In questi campi sono attese le proposte dell’ex presidente della BCE, ma allo stesso tempo si annidano i maggiori rischi, soprattutto politici. Mario Draghi farebbe bene a studiare attentamente l’esperienza di un altro tecnocrate, Mario Monti, chiamato al potere nel 2011 per sostituire il governo Berlusconi sfiduciato da mercati e istituzioni europee. Per un vasto programma di riforme globali è necessario un orizzonte temporale lungo e una legittimità politica che, quasi per definizione, un governo tecnocratico non possiede. La vasta maggioranza numerica che sostiene il governo in parlamento deriva dall’emergenza sanitaria ed economica, non da una convergenza delle forze politiche attorno a un’agenda comune. Sarebbe un errore interpretare questo ampio sostegno come un mandato politico e utilizzarlo per imporre riforme sulle quali i partiti di “maggioranza” non convergono.
Mario Monti non usò la dovuta cautela (soprattutto con la riforma Fornero delle pensioni) e oggi è difficile negare il ruolo del suo governo nell’ascesa del sovranismo. A questo proposito, le differenze tra i due Mario portano a un moderato ottimismo. Monti è da sempre portatore di una concezione tecnocratica dell’azione pubblica, per la quale il decisore politico deve scegliere la politica “ottimale” e imporla a una società riluttante. Mario Draghi, invece, anche nei suoi ruoli di tecnocrate, ha sempre dimostrato di aver chiaro che l’azione di governo è per definizione politica, perché ogni misura richiede scelte sulla distribuzione di costi e benefici. È proprio questa concezione non tecnocratica del suo compito che gli ha permesso di condurre con successo la BCE nelle acque tempestose della crisi della zona euro. C’è quindi da sperare che, invece di forzare l’adozione di riforme controverse con il pretesto dell’urgenza, Draghi concentri i suoi sforzi sulle poche misure ampiamente condivise dai partiti e dalle parti sociali, tra cui potrebbero figurare la funzione pubblica e il sistema giudiziario. In altri campi (ad esempio mercato del lavoro o pensioni), il governo di emergenza dovrebbe limitarsi a preparare il terreno individuando gli assi di intervento, per poi lasciare il campo a scelte politiche traggano la loro legittimità dal mandato (e forse, più tardi, dalla sanzione) del voto popolare.
La riforma delle istituzioni europee uscite malconce dalla crisi del debito sovrano è certamente uno dei temi su cui lavorare e su cui il dibattito europeo è vivace come mai prima d’ora. Le idee non mancano; molte di esse sono addirittura state formalizzate in proposte della Commissione. Quello che è mancato finora è un vettore politico che le trasformasse in risultati. Questo vettore potrebbe essere rappresentato dall’Italia di Mario Draghi su questioni quali la riforma del Patto di stabilità, la tassazione delle multinazionali, la creazione di una capacità di bilancio permanente, non sarebbe difficile trovare un punto di convergenza tra le forze politiche italiane. Il prestigio (più che meritato) di Draghi al di fuori dei confini nazionali potrebbe fare il resto, costruendo un consenso europeo sulla riforma istituzionale europea. Se l’ex presidente della BCE si concentrasse su questi cantieri, gli effetti benefici per il continente e per il nostro paese sarebbero notevoli.