Al termine della notte
Intervista a Gian Maria Tosatti, artista unico del padiglione Italia
testo di Silvia Pampaloni, foto di Luca Papini
Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le relazioni tra i corpi e la Terra? E come sarebbe la vita senza di noi?
Questi erano alcuni degli interrogativi che la curatrice Cecilia Alemanni ha posto agli artisti invitati alla 59esima edizione. Quesiti posti prima che il mondo, già preda dell’incertezza della crisi sanitaria, cadesse sbigottito nell’abisso di uno scenario bellico alle porte dell’Europa. Quale ruolo può l’arte giocare in questo periodo di grande instabilità e di incertezza assoluta?
Gian Maria Tosatti, artista unico per il monumentale Padiglione italiano, ha interpretato insieme al curatore Eugenio Viola (Direttore del Museo di arte contemporanea di Bogotà) queste complesse tematiche attraverso una narrazione in due atti, in una sintassi inesorabilmente teatrale.
Storia della notte e destino delle comete è un’installazione immersiva che indaga l’ambigua condizione umana nella crisi meta-pandemica, attraverso la visione metaforica del declino del sogno industriale italiano. In una pluralità di linguaggi, consueta nella ricerca artistica di Tosatti, si propone una riflessione simbolica, sul rapporto tra uomo e natura e sul destino della civiltà umana, in una realtà distopica in bilico tra sogni del passato ed incubi del presente.
Invitati a mantenere un rigoroso silenzio, si entra in piccolo gruppo nella ricostruzione di un capannone industriale dismesso, situato nell’intera superficie delle Tese delle Vergini, all’Arsenale.
Vagando tra silenti macchinari abbandonati e carcasse del defunto miracolo italiano, si arriva ad un geometrico e spettrale allestimento industriale tessile. In lontananza echeggiano quasi impercettibili musiche degli anni ’60 e rumori di catene di montaggio fantasma. Dal soffitto cadono tubi lucenti, ormai sconnessi tra di loro. La figura umana è completamente assente, anche dallo spoglio appartamento allestito con polverosi arredi piccolo borghesi dentro al capannone. Sopra il letto matrimoniale senza materasso aleggia l’ombra di un crocifisso che qualcuno ha tolto. Un presente svenduto che riflette la nostra storia come un implacabile specchio crudele.
Ma nessuna notte è infinita, la narrazione teatrale vuole concludersi con un epilogo di luce.
Riprendendo una dichiarazione di Pier Paolo Pasolini “Darei l’intera Montedison per una lucciola”, Tosatti propone una via di uscita. Sebbene le luci del sogno industriale italiano sembrano essersi inesorabilmente spente, nell’ultima installazione del padiglione assistiamo, da un pontile avvolto nell’oscurità circondato da acque movimentate, al sospirato ritorno delle lucciole evocato da Pasolini.
Un messaggio catartico di pace e di speranza, nelle intenzioni degli autori. Tuttavia il sinistro rumore metallico emesso dalle luci artificiali che si avvicinano e si allontano verso il visitatore, come su ferrovie industriali arrugginite, lascia addosso una cupa sensazione di minaccia.
Se l’augurio di Cecilia Alemanni per questa 59esima edizione era che con essa ci si potesse immergere di nuovo nel “re-incantesimo della vita” forse la rappresentazione di questo sogno non è altro che un incubo del mondo che, confuso, specchia se stesso nelle acque scure dell’arsenale. Basterà la luce fioca delle lucciole a salvarlo?
Abbiamo incontrato l’artista Gian Maria Tosatti, nel freddo e piovoso giorno della pre-apertura della Biennale d’arte.
Storia della notte e destino delle comete, questo è il titolo che avete scelto per l’allestimento del padiglione Italia, in un’edizione che si interroga sul post-umanesimo. Il destino della cometa dell’umanità prevede dunque una inesorabile parabola discendente?
Non necessariamente, è un destino che ancora possiamo scrivere. L’umanità nella sua storia ha disegnato una parabola in alcuni momenti meravigliosa. L’uomo con le sue invenzioni e le sue espressioni artistiche ha saputo scintillare: ha dato vita al progresso scientifico, ha generato immagini culturali meravigliose di cui ci siamo innamorati. Siamo arrivati ad un punto in cui questa parabola sembra effettivamente poter disegnare una fine. Siamo in un momento di “notte fonda”: c’è una catastrofe economica, una catastrofe ambientale, c’è una guerra diffusa. Direi che più notte di così è difficile da immaginare. Ci stiamo confrontando con l’idea stessa di estinzione della nostra specie. Ma non c’è niente di definito, dipende da noi. Possiamo ancora decidere di continuare a scrivere la nostra storia. Dobbiamo chiederci cosa siamo disposti a fare. In realtà il nostro padiglione vuole solo porsi delle domande, non ha la pretesa di dare nessuna risposta e nessuna spiegazione.
Nel padiglione italiano ci immergiamo in uno scenario metafisico post-industriale che mette in scena la fine del grande sogno produttivo italiano, come simbolo dell’attuale condizione di crisi. Ci può illustrare la genesi di questa idea?
Molte persone ci hanno chiesto dove avessimo trovato questi macchinari industriali degli anni ’60. Segno che nel nostro immaginario collettivo ancora leghiamo il concetto stesso di industria italiana a quegli anni. In realtà non c’è stata solo un’operazione di “archeologia industriale” ma abbiamo acquistato alcune di queste linee dalle numerose industrie di provincia fallite con la crisi legata al Covid. È una fotografia della vita come specchio della precarietà ed una visione che parte dalla relazione tra uomo ed il suo ambiente. Ci sono echi, per esempio, della Dismissione di Ermanno Rea, parte della storia della dismissione dell’Ilva di Bagnoli, quindi una storia che riguarda tutti noi.
Tra i quesiti posti dalla curatrice Cecilia Alemanni agli artisti c’è la domanda definitiva: cosa ci sarà dopo di noi?
Voglio rispondere a questo quesito da intellettuale e non da artista. Non voglio interrogarmi su cosa ci sarà dopo di noi, penso sia fondamentale interrogarci su cosa fare affinché questo non accada. Io non sono disposto a pensare alla vita senza di noi. Voglio fortemente credere alla vita con l’Umanità. Dobbiamo trovare il coraggio di diventare ciò che dovremmo.