Nella mia pratica professionale privata e istituzionale, ho incontrato diverse ragazze anoressiche e/o bulimiche. L’anoressia si presenta come una paura ossessiva di ingrassare e un rifiuto del cibo tale da produrre magrezza patologica, amenorrea (arresto delle mestruazioni) e un deperimento generale del corpo. Il digiuno può alternarsi a crisi di bulimia (letteralmente: “fame da bue”) cioè abbuffate di quantità eccessive di cibo, seguite da pratiche di espulsione come il vomito autoindotto o l’abuso di lassativi e di diuretici. Le statistiche mostrano che la stragrande maggioranza dei soggetti colpiti sono di sesso femminile, a fronte di una piccola percentuale di soggetti di sesso maschile. Forse assisteremo in futuro a un aumento dell’anoressia maschile proporzionale all’attenzione crescente per l’estetica del corpo dell’uomo. Spesso l’anoressia comincia con una dieta dimagrante che non giunge mai a essere soddisfacente. Quando l’anoressica cede all’istinto di sopravvivenza, mangia tutto quello che trova, si riempie di cibo per poi provocarsi il vomito, tormentata dai sensi di colpa. La bulimia è un tentativo disperato di riempire un vuoto abissale interiore, e spesso precede l’anoressia. Quest’ultima si impone allora come una modalità per coprire l’abbuffata, per castigarsi, per controllare il desiderio smodato di cibo, per liberarsi dalla dipendenza del mangiare, scivolando però nella dipendenza del digiuno.
Sono due le cose che mi hanno colpito negli incontri con le ragazze anoressiche : la prima è che ogni anoressica è diversa dall’altra. Non si tratta di una malattia con eziologia univoca e certa, ma della manifestazione di una sofferenza soggettiva e individuale. La seconda, è la costatazione di un punto di godimento nel sintomo, un godimento a cui la ragazza anoressica non è facilmente disponibile a rinunciare. E’ un godimento di onnipotenza, di sfida totale del limite. Sembra un paradosso: c’è sofferenza fisica, deperimento, debolezza, rischio di morte, eppure il rifiuto del cibo è così tenace da diventare per l’anoressica il centro di tutta la sua organizzazione pulsionale e esistenziale. Come è possibile?
Dobbiamo partire dall’insegnamento freudiano che ci indica che il cibo non è solo nutrimento. Il lattante non succhia solo latte dal seno materno, ma trae una soddisfazione che va al di là del bisogno del corpo. E’ una soddisfazione fatta di sicurezza, di contatto, di riconoscimento. L’alimentazione, che ci viene dall’Altro, veicola emozioni e desideri e dà all’oggetto orale (il cibo) una valenza preziosa, che orienta lo sviluppo relazionale e affettivo. Così i disturbi alimentari sono spesso sintomo di una difficoltà nello scambio madre-bambino. Anche le intolleranze alimentari, tanto di moda oggi, traducono un disagio relazionale, un rifiuto agito o ricevuto, che si traduce nell’impossibilità di metabolizzare un certo alimento. Dopo l’allattamento, anche lo svezzamento è un periodo delicato che può influenzare i successivi momenti di “separazione” nella vita di una persona. Particolarmente critico è il periodo dell’adolescenza, in cui avviene la separazione dalla posizione protetta dell’infanzia a quella di una nuova indipendenza. Non a caso i sintomi anoressici compaiono in età adolescenziale. Non si tratta solo di una separazione dall’adulto, ma anche da una parte di se stessi. Quando questa operazione non funziona, quando la fase di separazione non viene attraversata in modo adeguato, una fragilità latente resta in agguato per scoppiare in un sintomo alla prima difficoltà emozionale. L’anoressia non è una fatalità, ma “si prepara” dalla prima infanzia ed esplode in pubertà. Questa è una tappa delicata: il corpo si trasforma e la bambina assume una posizione sessuata più chiara, più matura. Non tutte le ragazze accettano questo cambiamento. L’anoressia è innanzi tutto rifiuto della posizione sessuale femminile e un rifiuto della relazione con l’altro sesso. Il non mangiare appiattisce le forme, elimina le nuove rotondità del corpo, abolisce il ciclo, crea un corpo androgino e scheletrico, un corpo che non genera nell’altro desiderio, ma piuttosto angoscia. La psicoanalisi sostiene che nella posizione anoressica, c’è il “rifiuto dell’altro”. Questo è da intendere nella duplice significazione: il rifiuto agito dal soggetto nei confronti dell’Altro materno, “ti rifiuto e rifiuto ciò che tu mi offri”, e il rifiuto vissuto dal soggetto, che non si è sentito accolto, accettato, riconosciuto, “mi rifiuti, non mi desideri”.
Jacques Lacan scrive che l’anoressica “mangia il niente”, cioè fa del “niente” il suo oggetto elettivo, essa si nutre del niente, e di questo gode, ama questo oggetto più di sé stessa, più della sua vita, tanto da mettersi in pericolo di morte. Anche l’immagine allo specchio è distorta, l’anoressica si compiace della sua magrezza, si vede bella. L’esaltazione dell’immagine del corpo magro nei media e nel mondo dello spettacolo contribuisce alla formazione di questo ideale di magrezza assoluta come sinonimo di successo e di riuscita. L’anoressica contempla con fierezza il suo corpo di pelle ed ossa sul quale pensa di esercitare padronanza totale, nell’aspirazione folle di neutralizzarne ogni spinta pulsionale: la fame, la sete, la stanchezza, la pulsione sessuale.
Come fare breccia in una costruzione così blindata, riluttante ad ogni tentativo di convincimento, apparentemente insensibile all’angoscia dei genitori e dei familiari? E come la psicoanalisi interviene con un soggetto anoressico? Nella relazione terapeutica si ripresentano spesso le dinamiche che il soggetto ha vissuto con i suoi genitori.
E’ quindi importante per il terapeuta non occupare la stessa posizione, non essere ingombrato, con le dovute attenzioni, dalla preoccupazione per il dimagrimento della paziente. La prima difficoltà è costituita dal fatto che la domanda di cura non sorge direttamente dall’anoressica, ma da chi le è vicino: genitori, parenti, amici.
Il primo passo è quindi quello di produrre un’implicazione soggettiva della ragazza.
L’analista non opera come esperto dei disturbi dell’alimentazione, ma come esperto dell’inconscio. Non punta direttamente a produrre nella paziente la domanda di cibo, ma a fare emergere la domanda d’amore. Senza domanda d’amore non c’è transfert, e senza transfert non c’è analisi. Occorre allora rovesciare il dispositivo classico del paziente in attesa di risposta e di soluzione fornite dallo specialista. Dare prescrizioni, risposte, consigli, spiegazioni, è come insistere nell’offrire piatti di vivande da ingurgitare. L’effetto è quello del rifiuto. Non è il sapere dell’esperto a prevalere nell’incontro analitico, ma il sapere che il soggetto ha sulla propria sofferenza.
L’ascolto analitico non satura, non riempie, non ingozza l’analizzante, esso punta piuttosto a fargli esprimere il senso che per lui ha il suo sintomo, a far vacillare l’onnipotenza anoressica, la certezza distruttiva di bastare a se stessa, di non avere bisogno di niente e di nessuno. E’ l’insorgenza di un punto di angoscia del soggetto anoressico, e non la sua eliminazione, a permettere l’avvio del lavoro analitico e la messa in moto della rettificazione soggettiva. In analisi non si cura il disturbo dell’appetito in modo diretto, non si parla in genere di cibo, di quanto si è mangiato, di quanti grammi si sono persi o recuperati.
Il soggetto è condotto ad accedere a una sofferenza più profonda, una sofferenza psicologica che egli stesso ha rimosso.
Se si apre questa faglia, se l’anoressica riconosce la propria sofferenza e accetta di parlarne, se accetta di mettersi in gioco, allora ci sono speranze affinché rinasca, in quella ragazza denutrita, la fame d’amore e insieme ad essa la voglia di mangiare.