Bologna la città degli assembramenti
testo di Valerio Evangelisti, foto di Pierluigi Molteni
La “fosca, turrita Bologna” cantata da Carducci è oggi quasi altrettanto turrita, ma ancora più fosca. Provvedimenti d’urgenza contro la pandemia, di dubbio fondamento scientifico e di incerta utilità, le hanno strappato il cuore, e cioè la vitalità sociale. Chilometri di portici, fatti per facilitare il passeggio e gli incontri, anche con il maltempo, si adagiano quali vuoti budelli, in cui ogni passo rimbomba. Piazza Maggiore, luogo di convergenza naturale per chi volesse conversare, fare festa, discutere, protestare, litigare, somiglia a una scacchiera senza pezzi, salvo passanti sparuti con le tasche dei paletot gonfie di autocertificazioni. I ristoranti, gloria della città, sono chiusi. Il colpo davvero mortale viene però dal coprifuoco serale. Bologna viveva al meglio quasi più di notte che di giorno. Adesso, dalle 18 in poi, è una scatola vuota. E triste.
C’è chi si chiede se il fantomatico virus attenda il tardo pomeriggio per manifestarsi con maggiore furia famelica. Si risponde che nelle ore serali sono più probabili gli assembramenti. Ecco apparire la parola diabolica, “assembramenti”. Visto che il morbo assale di preferenza persone anziane, viene spontaneo chiedersi dove si assembrino costoro, allo spuntar della luna. In compenso, ecco la desertificazione radicale della zona universitaria, dai mille bar, o del piccolo Quartiere Latino di via del Pratello.
Le vie adiacenti all’università sono state, da sempre, un crocevia giovanile, frequentatissimo. Piazza Verdi fu l’epicentro del movimento del 1977, che condusse l’autorità cittadina sull’orlo del collasso, e la spinse nell’isteria. Fu la sede più vistosa della frattura tra un partito comunista imborghesito, attento alla conquista dei ceti medi, e una collettività insubordinata, presente nell’urbe senza appartenervi veramente, sciamante, indisciplinata, incline all’ironia e alla dissacrazione. Trascorso quel momento, segnato da barricate e scontri violenti, non tornò una vera calma. Seguitò a concentrarsi nella zona universitaria un popolo di giovani, vittime dell’usura dei padroni di casa, del lavoretto temporaneo e malpagato, della continua sorveglianza delle forze dell’ordine. Adesso, complice la pandemia, nemmeno quell’embrione di contro-società esiste ancora. Tutti in casa alle 18, a sorbirsi programmi televisivi di rara cretineria, col mantra orwelliano scandito di continuo di quanto sia utile starsene nel pollaio domestico.
Bologna, la città divisa tra autoctoni obbedienti e corpo studentesco insofferente alle costrizioni, più che essere uccisa, si è suicidata. Reciso il corpo estraneo degli universitari, rimane il corpaccione oscenamente pesante della monotonia, seduto dov’erano gioia, follia e creatività. Ma, per legge di contrappasso, soffrono di ciò gli stessi idolatri dell’ordine. Campavano di affitti smisurati per gli studenti, di prezzi altissimi dei generi alimentari, di vetrine dai beni inavvicinabili. Adesso gli sfruttatori, nel momento della loro vittoria definitiva, non hanno affittuari né clienti. È penoso vedere passare il bus turistico – innovazione recente, in una comunità da sempre diffidente verso il turismo non danaroso – con i sedili vuoti, a parte, magari, un paio di inglesi smilzi e canuti protetti dalla mascherina.
Eppure Bologna respira ancora, sotto questo sudario. Firenze forse la batte in fulgore, ma non in antichità. A molte svolte di strada bolognesi si scoprono archi, colonnine, geometrie e strutture medievali. Ogni drogheria e salumeria è una festa di sapori e profumi. Ci sono file di osterie che, del tempo andato, hanno conservato l’umanità e la confidenza spontanea. Oltre a punti di riferimento in cui si fa musica, si recitano poesie, si canta, si beve, ci si ama. Per favore, togliete la lugubre coperta dei morti. Scoprirete un tesoro.
E c’è la Bologna ignorata da tutti, composta a nord dagli edifici avveniristici del complesso fieristico, a sud da collinette leggiadre con casette e villine. L’onnipotente classe dominante, che il defunto PCI aveva a cuore, ha scelto da tempo di non spadroneggiare, di stare nascosta, quale strumento ha scelto l’altitudine. Più si abita in alto, più sale il ceto di appartenenza. Esplorando col binocolo le piccole vette alberate adiacenti alla città, si scoprono guglie, torrette, finestre in finto gotico, grandi giardini recintati. Lì stanno i “poteri forti”, le grandi famiglie imprenditoriali (del caffè, della meccanica, delle confetture, ecc.) che compartivano con la gestione “comunista”, quando ancora si definiva tale, una suddivisione delle competenze. A te la politica, a me l’economia. Il compromesso storico, nella cinta bolognese, ha preceduto di molto la sua teorizzazione berlingueriana.
La plebe studentesca sta in basso, ammassata nelle stradine attorno alle Due Torri, schiacciata in stanzette care quanto un appartamento. Ha una caratteristica pericolosa di questi tempi: la tendenza all’assembramento, la voglia di ammassarsi. Ed eccola rinchiusa nei suoi pollai, esclusa da una spontanea socialità. E poco importa che, fino a oggi, non sembri avere un ruolo nella diffusione del virus. Non si ammala né contagia. Tuttavia resta pericolosa, secondo le tetre profezie dei virologi assortiti che impazzano sul piccolo schermo. Possono toccare un vecchio, inoculargli il morbo, soprattutto la sera. Dunque se ne stiano nei loculi loro destinati, seguendo corsi al computer privi di rilevanza didattica, balbettati da docenti mascherati, per i quali l’interlocutore è un quadrettino su uno schermo.
Addio ’77, addio Bologna nottambula, addio teatri e osterie. Ha vinto l’élite collinare, la città codina e pretesca, la casta dei falsi comunisti. Io, però, ho un sogno ricorrente. Che la gleba giovanile bolognese, esasperata, abbatta i cancelli e si precipiti ad affollare di nuovo le vie deserte. Che rinasca l’epoca dei salutari assembramenti. Ci vorranno barricate? Ben vengano. Ma dietro le loro strutture si ricomincerà a cantare, a bere, a recitare poesie, a fare cinema e teatro. Il cadavere di Bologna riacquisterà vita e forza.
È solo un sogno? Non ne sarei così sicuro. Odo, nella veglia, montare un muggito indistinto, che assume accenti sempre più netti. Bologna che si ridesta fa rumore. Dormo sonni abbastanza tranquilli, altri non so.
Valerio Evangelisti è uno scrittore, saggista e fumettista italiano. Uno dei più noti scrittori italiani contemporanei di fantascienza, fantasy, in particolare low fantasy e horror, che fonde nelle sue opere. È conosciuto soprattutto per il ciclo di romanzi dell’inquisitore Nicolas Eymerich e per la trilogia di Nostradamus, che sono diventati best seller. Mentre la sua opera, sviluppata in modo indipendente, è del genere New weird, a Evangelisti è riconosciuta anche l’appartenenza di alcune sue opere per il corpus letterario definito il New Italian Epic. Ha scritto anche saggi e romanzi storici.