Catania, This Heat

di Chiara Impellizzeri

 

«Lo senti anche tu? Ma iu non ci pozzu cririri…».

Sedute al tramonto su un terrazzo a svolazzi barocchi le mie amiche guardano la Via Etnea lanciarsi verso il vulcano e fendersi un passaggio tra i palazzi neri di pietra lavica e le chiese parate a festa per i matrimoni estivi.

«Ecco a voi ragazze».

«Sei euro per un Nero d’Avola… Nemmeno fossimo nel Marais».

«Cu setti euro m’accattava a buttigghia».

«Smettetela di fare le provinciali. Le cose belle si pagano».

«Io non mi spiego» interviene Marta: «I miei amici lavorano in nero a 6 euro l’ora, i contratti, quando ci sono, sono sotto inquadrati, e gli affitti bassi: insomma, ‘sti prezzi cosa pagano?»

Non so cosa rispondere. Julie, la mia amica parigina, ci guarda aspettandosi storie di affari loschi, ma la verità è semplicemente che qui la gente è abituata, a sedici anni facevano i camerieri dalle sei del pomeriggio alle quattro di notte per un forfait di 20 euro a turno, sei euro l’ora è un passo avanti.

Dietro le buganvillee e i vasi di piante grasse, un tramonto violaceo e la nube pannosa che circonda il cratere.

«La chiamano La Contessa dei venti», spiego a Julie mentre carico la pagina di Wikipedia:

«In verità sarebbe ‘contesa’ dei venti: “un altocumulo lenticolare formatosi per l’interazione dei massici montuosi con le correnti cariche d’umidità”. Ma i catanesi le hanno voluto trovare un titolo nobiliare».

«Eccolo, l’ho risentito… L’odore! Lo porta lo scirocco, l’hai notato?»

«Eppure sono passati giorni…».

«Ora dove vogliamo andare?», chiede Marta.

«A mangiare», esclama la parigina:   «MAN-GIAAA-RRRE».

Julie è alta, bionda e magra. In tre giorni a Catania ha preso già quattro chili. Ieri pomeriggio l’ho lasciata farsi un giro da sola, l’ho ritrovata in una panchina della Villa Bellini tra le macerie di un pacco di paste di mandorla e un barattolo di crema di pistacchio che scavava con le dita.

«Poi ti rovini l’appetito, mia mamma ha fatto le frittelle di mucco».

La mattina eravamo passate dalla pescheria, il più antico mercato di Catania, un tripudio di banchi del pesce, grida sguaiate e pozzanghere d’acqua sporca, in un cortile di pietra nero circondato da palazzi ottocenteschi. Sopra i banconi una lunga balconata permette di attraversare il mercato e guardarlo dall’alto, come la fossa di un teatro. Qui si vende il mucco, detto anche neonato, un minuscolo pesce trasparente, un bebè di acciuga. Mia madre lo frigge con una ricetta sensazionale, ottenendo una polpetta dorata con intarsi d’argento, gli occhietti del pesce. Un tempo nel quartiere c’erano solo le case di un centro storico popolare, case belle e sdirrupate, a ogni terremoto gli inquilini ballano. Adesso invece le stradine sono state decorate con un soffitto di ombrelli multicolori che ha subito spopolato su Instagram, e in pochissimi mesi sono spuntati mille locali che propongono cartocci di pesce fritto, sushi e cibo fusion. Le insegne portano nomi intraducibili che strizzano l’occhio alla tradizione dialettale, ma in chiave giovanile e sbarazzina o, in una sola parola, hypster: U schitticchio, T’immucchi quattru, Mi scialai…

Dopo il giro avevamo preso una granita di gelsi e una crema di caffè sulla Piazza del Duomo, guardando l’obelisco del Liotru, l’elefante simbolo di Catania, e la cupola del Vaccarini dietro le palme.

«Vedi quello?». Avevo indicato a Julie la scritta ai lati della cattedrale: N.O.P.A.Q.U.I.E.

«Significa Noli Offendere Patriam Agathae Quia Ultrix Iniuriarum Est. Non offendere la patria di Agata, Vendicatrice delle Ingiurie. Solo Catania poteva andar fiera di uno slogan così minaccioso, così mafioso. Persino io lo leggo con un fremito di piacere di cui poi mi vergogno. Si dice che Federico II, per punirla della sua rivolta, volesse distruggere la città, ma questa frase, apparsa miracolosamente, lo spaventò».

Le avevo raccontato poi del mito del mago Eliodoro e della processione di Sant’Agata, che raccoglie ogni anno un milione di fedeli, indissolubile unione di sacro e profano, ceri votivi e palloncini di Spongebob. Avevamo proseguito visitando la via Crociferi, guardando i balconi del Bell’Antonio e il convento della povera Capinera, per passare poi dal teatro greco e visitare il Monastero di San Niccolò l’Arena, sede della Facoltà di Lettere, dove io avevo studiato tra chiostri fioriti e scaloni in marmo.

«Facciamo merenda!», mi ha proposto Julie, instancabile.

«Ancora un po’ di cultura, prima». Dopo una visita al Castello di Federico II, le avevo mostrato le mura di Carlo V e gli Archi della Marina, spiegandole che un tempo l’acqua arrivava davvero fino a lì, poi verso la fine dell’Ottocento i catanesi si erano lanciati, riuscendoci, nel folle progetto di prosciugare il mare. Lei non mi ascoltava, sbavava di fronte a una vetrina che esponeva lussureggiante frutta martorana. Con la promessa di portarla a mangiare i migliori arancini della città ero riuscita a farle visitare il Teatro Massimo Bellini e le rovine di Piazza Stesicoro sommerse da una delle numerose colate laviche. Julie aveva ammirato tutto, sudando sotto il sole a picco, poi si era fiondata a ordinare un arancino al pistacchio, una gigantesca palla di riso fritta e strabordante besciamella, che aveva immancabilmente fallito nell’addentare, sbrodolandosi la camicetta. Sconfitta, si era vista costretta a spilluzzicarlo con l’aiuto di una forchettina, sorseggiando un caffellatte sotto lo sguardo sconfortato del cameriere. Lungo la via del ritorno le avevo fatto attraversare a fera o luni, il grande mercato di Piazza Carlo Alberto. Purtroppo era quasi la fine, restavano solo frutta e verdura spiaccicate per terra e qualche venditore solitario che allettava i naviganti urlando con voce di sirena il prezzo al chilo: «Aaaaaaneeeeeuro, aaaaaneeeeeuro, aaaaaneeeeeeeuro!».

«Tiens, c’est drôle, c’est presque du français!» ride Julie: «On dirait Barbès».

Domani, mi dico, se il bus passa (ma non è detto che passi) la porterò ad Acicastello, per farle visitare la fortezza, la casa dei Malavoglia e i Faraglioni di Acitrezza, gli scogli che secondo la leggenda il Ciclope avrebbe scagliato su Ulisse in fuga.

Adesso invece siamo qui a sorseggiare l’aperitivo con altri amici in vacanza. Dopo probabilmente ceneremo in una di quelle osterie catanesi dove le quantità sono pantagrueliche, i prezzi lillipuziani e l’attesa interminabile. Passeremo attraverso i luoghi della nuova movida, dove prima c’erano solo negozi di cingalesi e adesso ci vive il figlio di un assessore, mentre i nuovi locali propongono mortadella e champagne. Sospirando verso il vulcano, Julie mi dice: «Com’è bella Catania, così piccola, elegante, moderna, con i palazzi neri e le ville sul corso. Mi aspettavo una città pericolosa, tutti parlano della mafia in Sicilia e invece…».

Io allora mi rendo conto che anche stavolta ho fallito. Da dieci anni ho lasciato Catania e quando torno la vivo a mia volta da turista, ripetendo gli stessi giri con gli amici ospiti. E per quanto provi, sistematicamente l’immagine della città che emerge da queste visite risulta sempre mitica, glamour e bon vivant. Forse dovrei portarla a San Berillo, il quartiere delle prostitute in pieno centro, a mostrarle le stradine caotiche, la nuova miseria degli immigrati in attesa di permesso di soggiorno, il lavoro infaticabile di quelle associazioni che provano a resistere all’ennesimo progetto di gentrificazione dei quartieri poveri. O dovrei portarla nella grandissima periferia di Librino, il futuristico progetto del celebre architetto Kenzo Tange che prevedeva moderne case popolari, auditorium, teatri e palazzetti dello sport, e che nella realtà, tra abusivismo e corruzione, è diventato un ghetto di miseria e abbandono. O dovrei portarla al Campo San Teodoro, un pezzo di terra disabitata tra palazzoni, che i ragazzi dei Briganti Rugby e del gruppo Iqbal Masiq hanno occupato e rimesso a nuovo per farne un campo sportivo, organizzando anche un doposcuola e una biblioteca: una volta li ha sgomberati il comune, con la scusa di farne un parcheggio, un’altra i locali sono stati incendiati da anonimi. Loro in compenso sono ancora lì, novelli Sisifo a ricostruire eternamente da capo, più o meno come tutti gli amici catanesi che vivono nell’associazionismo e nella cultura, chiedendo spazi o occupandoli. Dovrei farle vedere questo, per farle capire il cuore della contraddizione di questa città, dietro la vetrina di palme e fichi d’india da cartolina, o per provare a farle intuire che la mafia non è solo quella dei film americani, ma anche quella della borghesia bene e dei capitali che si nascondono dietro alcune delle cose che le fanno amare questa città. Avrei dovuto raccontarle la storia del Cpo Experia, o spiegarle chi era Pippo Fava. E invece sono qui a parlare di Aci e Galatea, della Fucina di Efesto, di Ovidio e Virgilio e a impressionarla coi fasti della scena musicale catanese, di Steve Albini che produce gli Uzeda.

«Adesso lo sento anche io», dice Julie: «L’odore… ma è cenere?»

Quasi una settimana fa, quando sono arrivata in aereo, il boschetto della Playa di Catania bruciava. Tutto il litorale era a fuoco, i lidi distrutti, gli alberi carbonizzati. Indagine aperta per incendio doloso.

«Tè», mi dice Marta mentre tossisce disgustata, rivolta verso l’Etna:

« St’odore sa di una di quelle metafore brutte che piacciono tanto a te».