Certe isole fluttuano sempre
testo e foto di Bruno La Pietra
Toponomastica poetica del Lago di Posta Fibreno, tratto da Quaedam insulae semper fluctuantur.
Una toponomastica poetica è un modo possibile, seppur evanescente, di rappresentare un luogo.
In fin dei conti la geografia è una materia molto soggettiva e mendace, a meno che non si creda ancora, nonostante Bateson, che “la carta sia il territorio”.
Anni fa, sedotto dal fascino della conoscenza classificante, catalogante, cioè dall’accumulo di nozioni, mi accostai al lago di Posta Fibreno (Frosinone) con più certezze. Di quell’ambiente, anzi di quel biotopo, che non è un ratto alimentato con sostanze non inquinate, sono sempre stato innamorato.
In ecologia questo termine descrive un’area di limitate dimensioni (ad esempio uno stagno, una torbiera, un altipiano) di un determinato ambiente dove vivono organismi vegetali ed animali di una stessa specie o di specie diverse, e con esse forma un’unità.
Una sorta di kibbutz Cortàzariano.
Con quel grado sufficiente di autarchia che me lo rendeva altezzosamente intrigante.
Ne scrissi, con sentenziosa velleità, un pamphlet pieno di dati e osservazioni per certificare la buona salute naturalistica di quell’occhio acquoso che però nascon-deva, alla mia relazione pseudo scientifica, qualcosa in più, qualcosa che era sfuggita all’intento sistematico del buon Linneo.
Fui felice, però, di continuare ad osserverlo per spogliarlo dei suoi segreti. Anche io volevo il mio Walden pond.
Certo non così selvaggio, non era vicino a Concord e l’Italia era stata devastata dalla presenza umana più che non il quieto Massachusetts.
Però era bello.
Se ci arrivavo all’alba, come certe fotografie richiedevano, la sensazione di spaurimento era assoluta.
E neanche servivano a tranquillizzarmi le figure che in piedi, e lente, scivolavano tra la nebbia su quelle strane piroghe di legno. Anzi, forse sortivano l’effetto contrario.
Ma ciò di cui godevo, che cercavo in ore improponibili, era proprio quella dolce adrenalina, quel sorprendermi sereno, che col tempo capii essere il mio vero obiettivo e dalla quale, invece, la classificazione e l’archiviazione naturalistica mi distraevano.
Dal nulla, o meglio, da quel “Nulla il lago mi dice, né la brezza cullandolo” che il portoghese magrittiano così bene aveva scritto nel suo canzoniere.
Realizzai che fotografavo, scrivevo, classificavo per pretesto e che lo scopo ultimo, che nascondevo anche alla mia coscienza illuminista, era semplicemente il nulla, il puro godimento dello sbigottimento, dello spaurirsi come di fronte a un’alba primordiale, al volo improvviso di un archeopteryx dal canneto.
Forse c’è stato un passato magico, un tempo di favola per queste terre. Potrebbe non esserci stato?
Forse che altrove mille e una notte si sono susseguite a crepuscoli mattutini illuminati da leggende e da racconti e qui il placido, operoso giorno ha imperato senza inginocchiarsi al mistero che accompagna l’uomo che lo ha creato? Una toponomastica poetica è un modo possibile mitologico ha impedito alle parole di raccontare quello che agli uomini non era permesso vedere? Le parole sono servite per sfuggire i racconti, in queste terre così parche di illusioni?
Saturno è passato davvero?
Icaro, l’inesperienza, la fretta, l’improvvisazione che sfocia nella paura, nel terrore, cade nel precipizio delle onde e Dedalo, il simbolo creativo dell’uomo, è planato su queste instabili sponde come il geroglifico mignattaio insieme agli stormi di aironi, accompagnato dalle penne multicolori dei gruccioni?
… e a Cuma le sue ali stanno.