Che ore sono da voi?
Racconti scelti da Paolo di Paolo
di Arianna Caringi
Il nuovo volume pubblicato da Feltrinelli e curato da Paolo di Paolo ci restituisce l’Antonio Tabucchi cui siamo affezionati, capace sempre di rovesciare le nostre prospettive. Questi racconti – di cui uno finora inedito, dal titolo Che ore sono da voi? – disegnano una linea temporale che srotola avvenimenti inscritti nella Storia ma che assumono, nella loro minuziosità, una dimensione atemporale. L’eco delle concavità del tempo, questi spazi di vuoto riempiti come da un riflesso di suoni e voci (la voce, soprattutto, del narratore), ci spiegano e rivelano il rovescio delle cose, quel lato di verità ignorata da cui è visibile la cucitura del tessuto.
Il gioco consisteva in questo, diceva Maria do Carmo, ci mettevamo in cerchio, quattro o cinque bambini, facevamo la conta, a chi toccava andava in mezzo, lui sceglieva uno a piacere e gli lanciava una parola, una qualsiasi, per esempio “mariposa”, e quello doveva pronunciarla subito a rovescio, ma senza pensarci sopra, perché l’altro contava uno due tre quattro cinque, e a cinque aveva vinto, ma se tu riuscivi a dire in tempo “asopiram”, allora tu eri il re del gioco, andavi in mezzo al cerchio e lanciavi la tua parola a chi volevi tu.
Questo rovescio non rappresenta esattamente quello che chiamiamo “l’altra faccia della medaglia”, ma è piuttosto l’interstizio del significato che si coglie di sfuggita nelle sensazioni suscitate dagli eventi della vita. È la vista in trasparenza della medaglia, dalla cui faccia in avanti è possibile scorgere la faccia di dietro. Questo meccanismo apparentemente astruso, consiste nel capire ciò che è sotteso alle casualità che ci scivolano di fianco come ai momenti capitali della vita. Questa consapevolezza traspare dal gioco narrativo in modo immediato, tanto da farci dimenticare il mormorio che, dal testo, ce l’ha suggerita. Nel racconto Any where out of the world la lettura del giornale trovato, per caso, sul tavolo di un caffè, i gesti stessi di questa lettura, mostrano in filigrana l’impeto dello sguardo che, sempre più affilato, affonda nella verità e nel lato nascosto delle cose: “Quell’impaccio leggermente imbarazzante di riordinare il giornale per verificare la data in prima pagina lo attribuisci alla brezza marina che scompiglia i fogli e ne impedisce la giusta piegatura, tu non sei nervoso, tu sei perfettamente calmo, stai calmo.”
Cresce qui la stratificazione dei livelli di narrazione: la prima, quella del racconto di un uomo seduto ad un caffè che legge un giornale; la seconda, appartenente a ciò che il giornale trasmette, il brusio degli annunci, dei fatti di cronaca e, soprattutto, della rivelazione legata a quella frase, Any where out of the world, che in gruppo insieme alle altre pubblicazioni denuncia, nero su bianco, un messaggio cifrato per il protagonista, un’impossibile coincidenza); la terza, ciò che sta succedendo nella testa del personaggio che legge, la tempesta che si scatena dalla lettura, i vaneggiamenti e i quesiti di chi è di fronte ad una rivelazione: “Any where out of the world. Rileggi la frase per la decima volta, questo non è un normale annuncio, è una frase clandestina […]. Tu non hai bisogno di sapere altro, perché la frase si trascina dietro, come un fiume in piena trascina i detriti, rottami di parole che la tua memoria va ordinando chiaramente, con una calma che ti gela. […] La sua spremuta, signore le mandorle sono finite, mi spiace, desidera forse dei pinoli?”
Subito salta alla mente il capitolo di Rayuela, in cui Cortàzar alterna un rigo del libro che il protagonista del romanzo sta leggendo ad un rigo che riporta i pensieri che il protagonista fa mentre legge, lasciando al lettore l’ebbrezza di perdersi per poi ritrovare il filo della lettura, sperso in chissà quale spazio e momento della storia. Nei racconti presenti in Che ore sono da voi?, spesso la conclusione di una vicenda risiede nel suo preambolo, nell’annunciazione di ciò che verrà raccontato, creando una serie indefinita di livelli in cui il lettore può “abitare” nel racconto. In Notte, mare o distanza, il compito di animare i personaggi della vicenda è evocato dal narratore a chi sta immaginando ciò che viene raccontato. Quest’ultimo è la rappresentazione del racconto di un racconto che qualcuno sta raccontando a qualcun altro, il quale a sua volta lo immagina.
Tutto chiaro dunque (più o meno). Ma rimane da chiedersi: chi è, allora, che sta immaginando? È l’autore stesso che racconta ciò che ha immaginato mentre stava ascoltando qualcuno? È il lettore, siamo noi?
Lo spazio della narrazione è collocato così al di fuori dal tempo del racconto (quello riportato materialmente dall’autore) e fuori anche forse da un qualsiasi altro tempo. Il raccontare e l’immaginare, resi simultanei, possono esserlo in realtà solo se si considerano appartenenti rispettivamente a due universi e dimensioni temporali diverse. Solo così, su due livelli distinti, il racconto e l’immaginazione del racconto possono accadere simultaneamente. I personaggi sembrano allora prigionieri dell’immaginazione di colui che immagina come avrebbero potuto essersi svolti i fatti: “E tutto ricominciava, nell’immaginazione di chi immaginava quella notte, come una pantomima o una stregoneria: […] come povere creature stregate e condannate a ripercorrere il preludio all’avventura atroce che le aspettava nella notte e che una immaginazione non aveva il coraggio di far loro vivere come esse dovevano viverla.”
Il tempo dunque, qui come in altri racconti, è un concetto inventato, reinterpretato. Il tempo non è diviso fra passato, presente e futuro, ma è come racchiuso nella possibilità che qualcosa potrebbe essere stata, o essere, o diventare. Questa estrema possibilità del mondo fa del tempo non una linea dunque, ma una matassa in cui gli avvenimenti, e le sensazioni legate ad essi, si richiamano e rispondono, si assomigliano e si conoscono, ma senza un perché dichiarato (il che non esclude che un perché ci sia).
Segue questa spirale di “racconto nel racconto di un racconto” anche il testo, finora inedito, Che ore sono da voi?. La narrazione di questo gravita proprio attorno ad un orologio, simulacro di quella concezione del tempo che dispone le cose in un prima e un dopo. Per quanto materialmente presente (attraverso la presenza dell’orologio), il tempo qui è dato come assente, non necessario, in una prospettiva per cui immobile e in corso sono la stessa cosa. L’orologio è fermo nell’istante congelato in cui avvenne un certo avvenimento, ovvero l’irruzione dei nazisti all’interno dell’abitazione in cui si trovava colei che racconta: “Così andai in sala da pranzo, e vidi che l’orologio era fermo, non faceva nessun tic-tac. Segnava esattamente le otto meno cinque. Stavo per chiamare tutti, e per sistemare le lancette, quando si sentirono dei colpi alla porta.”
Anche questo interstizio di vita, interstizio di tempo, diventa la vita e il tempo. La voce narrante, fossilizzata in quell’istante brutale, cosa può farsene, a quel punto, di ciò che il tempo, come lo misuriamo, ci dà? E cosa ce ne facciamo noi, del tempo, dei fatti della vita? Come possiamo essere mai nello stesso posto o istante, se non rispetto agli altri, almeno rispetto a noi stessi, a quello che immaginiamo e ricordiamo, a quello che pensiamo? Siamo davvero nel dopo del prima, e siamo mai davvero nell’adesso?
“Per me quest’orologio segna le otto meno cinque del diciotto gennaio del 1944. Che ore sono da voi?”.