Dentro e fuori San Vittore

Intervista a Donatella Massimilla

A cura di Serena Rispoli

Ci sono realtà che ti fanno sentire orgogliosa di essere italiana. Intendiamoci, se ce ne fosse bisogno: non certo il falso orgoglio nazionalista di certe fosche ideologie che purtroppo in questo momento ci fanno assistere a scene vergognose di un degrado infinito. No, parlo dell’orgoglio aperto, sano e ridente che ci riempie di gioia nel vedere il nostro paese pioniere nel mondo di una cosa importante. Il CETEC, Centro Europeo Teatro e Carcere, è una di queste. Nato negli anni ’90 a San Vittore, Milano, è oggi una delle strutture più riconosciute di teatro in carcere e ha al suo attivo una serie nutrita di spettacoli e di eventi, un festival, e una marea di progetti in Italia e all’estero. Siamo stati a trovarli nel maggio scorso, in occasione della quattordicesima edizione dell’Edge Festival alla « Fabbrica del vapore », in vista di una collaborazione futura qui a Parigi, e abbiamo scoperto una rete incredibile di persone, contatti umani e relazioni  che hanno segnato negli anni – e continuano a farlo – il destino di  parecchie persone, detenute e non. Donatella Massimilla, co-fondatrice e direttrice artistica, ci parla di questo bellissimo percorso.

 

Puoi raccontarci brevemente la storia del CETEC? Quando e come è nato?

Il CETEC – Centro Europeo Teatro e Carcere – nasce a metà degli anni ’90. Dopo aver fondato con l’attrice spagnola Olga Vinyals Martori l’associazione culturale Ticvin Società Teatro, Olga ha deciso di tornare a lavorare in Spagna. Nel frattempo con alcuni attori detenuti di San Vittore avevamo una compagnia, La Nave dei Folli. Volevamo anche creare opportunità di reinserimento lavorativo e sociale con le arti e i mestieri dello spettacolo e per questo abbiamo creato una cooperativa sociale. Sono stati molti i progetti artistici negli anni che hanno creato formazione con fondi sociali europei ed opportunità di lavoro producendo spettacoli, gestendo eventi e l’Edge festival, rassegna europea dei teatri delle diversità.

Poi l’anno scorso abbiamo pensato, insieme ad alcuni giovani artisti con cui collaboriamo, a dar vita anche ad una associazione, CETEC, più agile e semplice da gestire insieme ad « Under 35 », una chiusura di cerchio direi promettente e contemporanea.

Con l’ Asssociazione CETEC siamo appena risultati vincitori del primo Bando 57 di Fondazione Milano con un progetto annuale, Città Mondo on the Road, che attraversa le periferie milanesi con un teatrino itinerante, l’ ApeShakespeare To Bee or not to Bee, animazioni teatrali e merende biologiche. Il tutto con una rete di associazioni e la partecipazione di attrici e cuoche ex-detenute di San Vittore.

 

Come sei arrivata a questo percorso nelle carceri?

L’origine credo sia nello scegliere i miei Maestri di teatro fra coloro che hanno attraversato confini, muri e da un punto di vista antropologico culturale, le differenze. Sono stata enormemente fortunata.

Da Jerzy Grotowsky, incontrato all’Università Sapienza di Roma per un  suo percorso trimestrale di visitor professor, al Festival di Santarcangelo di Romagna, dove ho lavorato per diversi anni con l’Istituto di Cultura Teatrale diretto dal Teatro di Ventura, e anche  il Festival Internazionale di Teatro di Strada, le compagnie incontrate, gli artisti, dall’ Odin Teatret a Dario Fo, ai lavori diretti da registi come Thierry Salmon e Cesare Ronconi, Gabriele Vacis: mi riportavano ad un teatro fuori dai teatri, ad un lavoro profondo sulle persone oltre che sui personaggi, a mettere a fuoco le mie necessità artistiche per seguire quella che credo sia stata una vocazione oltre che una passione per il mio lavoro nel teatro, all’inizio, giovanissima,  da attrice, poi da regista e drammaturga.

Così quando nel 1989 a Milano al Teatro Verdi, debuttai con il mio primo spettacolo scritto e diretto, il Decameron delle Donne, lo feci con un gruppo di attrici di diverse culture ed età, in cui riconoscevo una grande voglia di sperimentarsi e di approfondire un lavoro quasi auto-drammaturgico, di svelamento e non di finzione. Lo spettacolo era ispirato ad un romanzo della scrittrice russa Julija Voznesenskaja, che, attraverso le storie ispirate a temi diversi di donne “recluse” in un reparto maternità di un ospedale sovietico, raccontava invece la sua vera permanenza in un Gulag, le storie che aveva raccolto incontrando donne diverse costrette a vivere insieme per lunghi periodi.

Lo spettacolo ebbe molto successo e contemporaneamente nacque in me il desiderio di approfondire il lavoro in un vero luogo di reclusione, lo chiesi al Direttore di San Vittore, Luigi Pagano, e, grazie a lui e alla sua apertura, iniziai, prima nella sezione femminile, poi in quella maschile, a fare teatro in carcere.

E’ iniziato un viaggio che, tranne per motivi di lavoro in altri luoghi d’ Italia o all’ estero, direi non si è mai interrotto.

Il Decameron delle donne, versione trenta anni dopo, debutterà al Piccolo Teatro di via Rovello a Milano il prossimo 10 novembre, riscritto ed interpretato anche dalle attrici autrici detenute ed ex-detenute a San Vittore. Un’altra chiusura di cerchio.

 

Quanti spettacoli avete al vostro attivo nelle carceri e fuori?

Sai, non li ho mai contati. A volte i nostri lavori sono dei work in progress, hanno più versioni. C’è spesso un passaggio di testimone da un’attrice detenuta che esce e torna libera, ad un’altra che invece rimane in carcere, o inizia a seguire il Laboratorio. Comunque grazie per la domanda, sto preparando un libro sulla nostra esperienza che riporterà anche i dati precisi e allora devo assolutamente sistematizzare. Per ora ti dico a memoria, circa cinquanta rappresentazioni diverse fra Dentro e Fuori. 

Ci ha molto colpito la tua capacità a “fare rete” come dici tu, a riunire una serie di artisti e di realtà per operare in sinergia. È un tuo modo di fare da sempre o lo hai elaborato a poco a poco?

Da sempre. Ma confesso mi piace crearle lavorandoci molto, dedicando tanto tempo. Poi però a volte impiego un attimo ad uscirne, oppure a crearne una nuova e poi trasformarla insieme alle realtà che aderiscono in una progettualità più fluida. Insomma, sono contraria alle reti per opportunismo ma solo a quelle per affinità. Spesso le affinità non esistono tout court con chi fa lo stesso “genere” di lavoro teatrale, la ricchezza delle reti sta anche nell’evidenziarne e valorizzarne le diversità.

 

Da quanto tempo esiste l’Edge Festival? L’Edge Academy?

L’Edge Festival Teatri Oltre le Barriere nasce come Festival a Cambridge in Inghilterra. In seguito abbiamo deciso insieme ai miei collaboratori più stretti di importarlo nel 2005 prima a Roma e poi a Milano. Abbiamo collaborato con tante realtà europee – tedesche, irlandesi, greche -, anche con colleghi francesi per diversi anni, in particolare il Teatro dell’Opprimé di Parigi. Nel 2020 celebreremo quindici anni di lavoro Edge, un territorio sconfinato, a cui dedichiamo energie per organizzare con amore ogni anno o una rassegna Edge o un Edge-meeting o un’Edge-academy, coinvolgendo tanti teatri milanesi e luoghi apparentemente “periferici”, ad incontrare realtà di Teatro d’Arte Sociale e a favorirne visibilità e scambi di lavoro e di formazione. L’idea è di non smettere, ma vorremmo trovare una Fondazione che desse continuità a questi nostri sforzi anche a livello europeo.

Adesso avremmo bisogno di una struttura più ampia e istituzionale che aiuti la continuità dei progetti che contribuiscono in modo così forte a superare i confini dell’arte, a scambiare esperienze con i teatri oltre i muri, oltre le diversità, oltre le barriere. Negli ultimi tre anni possiamo ringraziare la Fondazione Pio Istituto Sordi e il Comune di Milano, molti momenti artistici Edge sono stati grazie alla loro collaborazione, anche tradotti nella lingua dei segni italiana, alcuni spettacoli sottotitolati e audio-descritti per spettatori non vedenti.

 

Per quel che riguarda teatro e carcere, pensi che dal punto di vista giuridico e della riflessione l’Italia sia avanti rispetto agli altri paesi (europei e non?) e perché?

Abbiamo inventato la Commedia dell’Arte, siamo maestri nell’arte dell’improvvisazione… diciamo che purtroppo ancora molto si improvvisa da parte delle istituzioni rispetto al lavoro nelle carceri. Non si è ottenuta nessuna forma di garanzia di continuità del lavoro e di riconoscimento economico da parte del Ministero della Giustizia. Avevo conosciuto Tim Robbins a Milano e recentemente l’ho rivisto al Festival del Cinema di Venezia. Il suo lavoro sistematico nelle carceri californiane con il “metodo” della Commedia dell’Arte, mi ha profondamente colpito. Anche il suo ricordo di Dario Fo, il suo debito di gratitudine verso la tradizione teatrale italiana, mi ha commosso. Mi ha ricordato le emozioni provate ad accompagnare il Maestro e Premio Nobel Fo a San Vittore, il giorno che la Corte di Strasburgo ci aveva condannato per il sovraffollamento nelle carceri, lui entrava a fare una memorabile lezione di teatro e di vita ai detenuti di San Vittore. Diciamo che nonostante la nostra primigenia a livello europeo ed internazionale dell’esperienza teatrale nelle carceri (da Volterra, a Roma, a Padova a Milano… realtà con trenta e più anni di storia) devo ammettere che ha fatto più lui in California in meno tempo e con più ascolto istituzionale, le carceri californiane hanno ora tutte adottato il suo “metodo” teatrale garantendo fondi e supporto organizzativo. Consiglio vivamente di vedere il documentario: quarantacinque secondi di risate.

 

Guardando i video della vostra attività in carcere emerge chiaramente un rapporto umano molto forte con le detenute. Come riuscite a guadagnare la loro fiducia e a costruirlo?

Condividendo con loro le attività e i progetti. Penso per esempio a Diarios de Frida. Viva la Vida. Inserito in un progetto ampio di conoscenza e reinvenzione del Diario e dell’Opera di Frida Kahlo, si sono così immerse nella ricerca che da oltre un anno creiamo – performance, mostre fotografiche, adesso un docufilm e una pubblicazione, totalmente pensate con loro, da attrici-autrici.

Guardandole negli occhi, parlando a viso aperto, ascoltandole, a volte anche contraddicendole ma stabilendo sempre una relazione vera attraverso gli esercizi del fare teatro creati a volte apposta per loro, basati su quella necessità del gruppo in quel preciso momento.

La mia esperienza ormai trentennale mi insegna che per fare teatro in carcere, la Commedia dell’Arte detta anche “all’improvviso” aiuta. Vuol dire anche cambiare sul momento lo sguardo, la maniera di raggiungere l’obiettivo, ma in modo concreto e sincero. Faccio un esempio: un’attrice detenuta riceve una brutta notizia da casa, non vuole rimanere all’incontro, cerchiamo di alleggerire la situazione portandola a non pensare ma ad agire, sottolineando quanto sia importante che lei sia con noi hic et nunc in quel preciso momento, e che anche se non se la sente di fare, può rimanere lo stesso, agendo con il suo sguardo di spettattrice. Il più delle volte la persona rimane e dopo poco lavora di nuovo con le altre con molta intensità.

 

Come vedi l’impatto del teatro sulla vita delle detenute, sul loro quotidiano, sul dopo carcere. Abbiamo letto che il lavoro teatrale diminuisce drasticamente la recidiva, cosa ne pensi?

Le nostre allieve attrici detenute dedicano molto tempo anche quando sono in cella da sole o in socialità insieme alle altre compagne, alle attività del teatro. Alcune sono coinvolte nella scrittura dei testi, quando abbiamo spettacoli nei teatri milanesi, sanno che forse non otterranno ancora il permesso di partecipare alle rappresentazioni all’esterno, ma non per questo non continuano a dedicarsi alla costruzione del lavoro.

Ovviamente a San Vittore anche i muri sanno che noi continuiamo a vederci e a lavorare con molte ex detenute attrici anche fuori dal carcere. Aver costruito questa opportunità di partecipare alle nostre attività formative e teatrali all’ esterno, dal progetto artistico  – da Le Sedie, work in progress contro la violenza di genere, collaborare con l’ Ape Shakespeare To Bee or not To Bee, da Expo 2015 la prima ape car italiana di street theatre e street food in molti luoghi milanesi, persino al Castello Sforzesco al Piccolo Teatro, al  nuovo progetto Città Mondo on the Road, che viaggerà con giovani artisti includendo anche alcune di loro nelle periferie e nelle scuole – garantisce che noi del CETEC ci siamo Dentro e Fuori e il nostro lavorare con loro in carcere non è solo un passaggio momentaneo. La recidiva certo che si abbassa, lo posso dire sulla nostra pelle. Non ricordo nessuno dei nostri allievi e allieve che sia ritornato in carcere.

 

Com’è nata la compagnia di ex detenute del CETEC?

Dopo tanti anni di lavoro alla sezione maschile, ricominciando a lavorare nella sezione femminile, ho avuto l’opportunità di collaborare con diverse persone impegnate nella condizione dei diritti e del “femminile” in particolare.

Diana De Marchi, prima consigliera della Provincia di Milano e ora, negli ultimi anni, Presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Milano, veniva sempre ai nostri spettacoli, ambientati in diverse location “carcerarie”, dalla biblioteca, ai cortili, all’ aria, ai corridoi. Come sai, San Vittore è un carcere antico, non ha un teatro.

Rimase talmente colpita dalla qualità dei nostri lavori che fu lei ad invitarci come “Compagnia teatrale CETEC Dentro/Fuori San Vittore”, dopo aver visto La Casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca rappresentato nel carcere. Un invito così fortemente voluto anche dalle Istituzioni, che il Presidente della Provincia ci ospitò nella suggestiva cornice del Cortile di Palazzo Isimbardi, la loro sede.

La Direzione del carcere e la Magistratura di Sorveglianza diedero il permesso di uscire, anche se con scorta, a moltissime detenute attrici che non uscivano da anni. Chi non aveva potuto fu sostituito in scena, ovviamente con prove necessarie, dalla stessa Diana De Marchi e da una anziana volontaria di San Vittore nella parte di Josefa, la vecchia madre pazza di Bernarda Alba. Nonostante la sostituzione di due attrici il gruppo respirò insieme e includendo « cittadine » nella compagnia. Una serata memorabile seguita da un dibattito infinito, il pubblico non voleva rimandare le attrici in carcere… direi che quella data può essere ricordata come la nascita della nostra compagnia.

 

Tu dai un’importanza molto forte alla trasmissione. Formare le nuove generazioni a questo lavoro è una delle tue priorità?

Si. Ripeto: sono stata fortunata a scegliere e ad incontrare i miei Maestri di teatro e di vita. Vorrei lo fossero anche i giovani artisti che vorrebbero lavorare con il teatro nelle situazioni difficili. Chi ha chiesto di fare una tesi di laurea o di affiancare il nostro lavoro, ha sempre avuto le porte aperte.

Se adesso possiamo passare il testimone a giovani artisti io e le mie compagne di viaggio storiche – oltre ad Olga Vinyals Martori, l’attrice e cantante Gilberta, Crispino, insieme al musicista Gianpietro Marazza che collabora ai nostri progetti dal mio debutto trenta anni fa – lo faremo con passione e speriamo anche con successo. Chi vuole può farsi avanti e sarà un progetto di formazione ad hoc.

Come vedi il futuro del CETEC? Ci parli dei vostri progetti internazionali?

Inizio dai progetti internazionali. Tanto Messico passando dalla Spagna e poi tanti Stati Uniti. Per scaramanzia però preferirei parlartene più dopo Natale.

Rispetto alla visione: siamo talmente pieni di progettualità che spero, usando una nota di colore di genere, che il futuro sia roseo, ovvero a dire che ci consenta di continuare a raccogliere i frutti di questo lavoro costante e certosino spesso invisibile, continuando sempre a mantenere vivo quello che Zeami chiamava “il fiore della giovinezza”.