Dialogo con Paolo Fabbri: Epide(se)miologie e contagi

A cura di Federico Montanari

 

Federico Montanari: Prima di affrontare la situazione di questi giorni fra contagio, stato di emergenza e Corona virus, proviamo a ripartire un po’ più da lontano, dal concetto di “Meme”. Da tempo oramai il concetto di meme, di “memetica”, sembra essere diventato di gran moda: dai social media al marketing alla politica…che ne pensi?

 

Paolo Fabbri: Sì, il meme, come una sorta di entità di base della cultura, come analogo del gene in quanto unità di codifica e trasmissione dell’informazione in biologia. Ma, ad esempio, proprio un paio di anni fa un’autorevole studiosa, Candice Shelby, anche dall’interno di un convegno di biologi ospitato al Centro di scienze Semiotiche dell’università di Urbino, ha pubblicato un intervento che distruggeva questo concetto di meme; riportando un dibattito molto acceso ha mostrato, certo assieme a tanti altri ricercatori, che la cosa non è affatto pacifica. Può esistere un’entità del genere dal punto di vista scientifico? O si tratta di una pseudo-scienza? Si tratta di oggetti che, se mai esistono, sono invenzione buone solo per il marketing online? E come pensarli: in termini di diffusione, imitazione o contagio? Dawkins aveva pubblicato il suo libro negli anni ’70 e da allora in tantissimi ne hanno discusso fino, per citare un noto filosofo, a Dennett. E anche nelle scienze umane e della cultura ci sono alcune posizioni che sembrano a volte porsi quasi in difesa del concetto di meme.

FM: Ma in effetti quello che sembra non reggere nell’idea di meme è proprio l’idea di trasmissione e al tempo stesso di statuto e di “taglia” di questa presunta unità. E’ ovvio che la cultura e le società sono fatte di sistemi complessi estremamente stratificati e in continua trasformazione ed evoluzione. Ma cosa passa e cosa si traduce o si trasmette? Idee, certo, concetti, categorie; ma come dice la studiosa critica di questa idea, si passa da un tipo di vestito, ad una pubblicità, per arrivare ad interi sistemi di credenze e di valori (religioni, politica, ecc.). Dunque, contagio e meme: complessità e semplificazione, con un concetto usato per definire tutto e il contrario di tutto. Ed eccoci arrivati a questi giorni, di fronte, allora, a questa situazione paradossale, con la sua idea di stato di emergenza.

 

PF: Dunque, eccoci, arriviamo pure alla situazione odierna. Se tu dichiari che c’è una certa entità che gira, che sta circolando, che arriva con l’aria, o che sta lì, un’entità che resiste anche per 5 o 6 ore di vita, poi tu la prendi su con la mano e poi ti tocchi ecc… Insomma c’è un oggetto che hanno poi individuato, che hanno visto come era fatto, una modifica di altri corona virus o del responsabile della Sars: l’hanno descritto, sequenziato, definito scientificamente; ma poi dopo averlo definito scientificamente (infatti vedi l’entusiasmo di quando anche il gruppo di ricercatrici e ricercatori di Roma l’ha identificato), l’hanno definito tutti. Ciò non toglie che ora però il problema è come ammazzarlo.

Questa idea di averlo individuato è interessante, ma poi c’è un oggetto che circola, sappiamo vagamente che proviene da una certa fonte animale, che proviene da vari organismi e che ha la capacità di trasferirsi da un organismo all’altro e forse di modificarsi. C’è un’unità definita e definibile. Il problema è ora come fermarla e come difendersi. E non è affatto scontato. Ad esempio, l’influenza la gente la becca più o meno, diciamo, ogni anno, il problema è che non la si può distruggere definitivamente, nelle varie ondate dei diversi virus: ci siamo rassegnati che arriva più o meno ogni anno, facciamo un vaccino preventivo, a volte funziona a volte no, e va bene.

Prendiamo un altro punto di vista. Io tempo fa mi ero interessato al tema della viralità dal punto di vista semiotico e della comunicazione, con alcuni articoli in un paio di riviste e avevamo fatto una cosa sui “rumors”; e avevamo preso la metafora epidemica. E questo mi pare interessante, dato che prolunga questo fenomeno del contagio alla dimensione semiotica e della comunicazione: questo non è soltanto un problema “biologico”, ma è intrinsecamente socio-culturale e a cui gli studiosi di semiotica devono rispondere. Da sempre, dal nostro punto di vista, sappiamo che esiste il problema delle “voci”, delle dicerie, che si propagano e che in qualche misura la cosa si poneva in maniera virale. Dopo che avevamo fatto un numero della rivista Versusdi semiotica mi ero intestardito a studiare la cosa e avevo seguito un caso assai curioso. C’era stato un periodo in cui a un certo momento ha cominciato a girare una voce o qualcosa di più: un sacco di gente di colpo gridava, o sentiva gridare, “Valerioo!”. Di notte, di giorno. Insomma, in Italia si era creato, se non ricordo male a metà degli anni ’90, un caso di contagio collettivo, o di voci, la gente andava in giro nella notte a gridare “Valerio”, o durante le corse della Ferrari o in altre occasioni. Bene, il problema era: “chi era” o cosa era Valerio? Bisognava individuarlo. Poi venne fuori quello che diceva: “no Valerio sono io!”. Sapevamo che c’era questa parola che veniva detta e che poi si trasferiva in modo assolutamente virale; se quello che stava vicino a te gridava “Valerio”: tu potevi essere preso oppure no. Questo prima di tutto ci servirebbe a ragionare sul fatto che esistono circuiti in cui una data entità entra in circolazione; e in questo caso si tratta di elementi fatti di significante puro: qualcosa che gira così, non dotato di significato, e quindi non è, per definizione, un segno. Le domande sono allora: come circola e perché? come nasce? E si dirà, cosa c’entra con qualcosa di molto più drammatico, come un virus? I soliti causalisti allora sono intervenuti. Questo è un punto importante: la differenza fra cause e motivazioni è la differenza fra scienze umane e scienze dure. E proprio qui entra in gioco il fenomeno dei rumors. Per tornare ad oggi, ci sono i social media che hanno veramente cambiato e riarticolato tutto: sono davvero dei teletrasportatori e moltiplicatori di rumors.

FM: Proprio in questi giorni nell’emergenza del virus molti giornalisti dicono: “…la comunicazione arriva dopo, si attacca sopra al fenomeno, costruisce la propaganda”, poi la stessa propaganda e gestione della comunicazione, politica di emergenza, fallisce o esagera… Che ne pensi?

 

PF: E’ proprio questa la questione: loro, gli scienziati non possono che pensare così, comunicativamente. Poi ci sono anche i fenomeni di connotazione, di propaganda e manipolazione ecc.; ma di fatto fin dal principio c’è un legame fra comunicazione e circolazione dell’epidemia o del virus. Pensa al concetto di sinapsi in neuroscienze [Ndr: la connessione funzionale tra due cellule nervose o fra una cellula nervosa e l’organo periferico di reazione]. Un libro di successo recente, Biologia della letteratura, addirittura chiama le connessioni grammaticali sinapsi. Perché? Al di là delle semplificazioni, anche assurde, è molto semplice: una delle ragioni è che la teoria dell’informazione su cui è basata tutta la genetica, alle origini, è anche una teoria della comunicazione. Tutte le cose come i fenomeni che noi linguisti e semiologi chiamiamo “sintassi” loro li chiamano “sinapsi”. C’è un’omologia completa. E l’epi-demiologia è totalmente trasferibile in una teoria dei rumors linguistici; sono trasferibili l’una nell’altra perché la base comune è la teoria dell’informazione, da sempre basata su problemi di comunicazione e di linguaggio, su problemi linguistici…

FM: Dunque è forse inutile distinguere fra comunicazione e il lato fisiologico o virologico…

 

PF: Ma certo, no, perché appunto il lato fisiologico e virologico sono pensati in termini di teoria dell’informazione. Ed è per questo che mi pare stolto ragionare come ragiona l’autore di Biologia della letteratura (pensa: professore di letteratura italiana alla Normale di Pisa), convinto che dare delle basi “fisiologiche” alla letteratura potrà farle fare un salto di qualità, cosa che a noi ci fa un po’ ridere…

Ma non si tratta, qui, di “imperialismo” di una teoria su un’altra (della teoria dell’informazione o del cervello sulla semiotica e sulla comunicazione o viceversa), il fatto è che la teoria dell’informazione degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso (di cui sappiamo benissimo, per inciso, il ruolo che ha avuto la guerra nel concepirla e svilupparla), è essenzialmente una teoria della comunicazione. E quindi non è un caso che quando vai poi a studiare i fenomeni del contagio ti ritrovi con problemi comuni.

La cosa spettacolare dei rumors è che metteva quasi a nudo questa possibilità di un trasferimento di un tratto apparentemente “insignificante” (chiaramente non solo nel senso nostro, semiotico, di significante e significato, ma anche come non rilevante) il quale però si trasferiva da un momento ad un altro, in condizioni di un certo tipo, e poi scompariva. E tutti i tentativi di scoprire dov’era nato, di rintracciarne l’origine, andavano a buca. Ed è quello che sta accadendo oggi.

FM: Pensiamo anche ai casi ironici di oggi: i leghisti in Veneto accusano i cinesi in un bar, salvo poi venir fuori che forse un “lombardo” era stato lui il portatore del virus che era da tutt’altra parte.

 

PF: Certo è involontariamente divertente e comico, in un certo senso. Ma è divertente proprio laddove cercano di isolare, circoscrivere delle zone: è come tentare di bloccare il grido “Valerio!”, che sfugge da tutte le parti. Più cerchi di bloccarlo e più circola…

FM: Il corona virus come “Valerio”, come una forma di diffusione caratteristica dei memes? Che poi, prima il nome era “corona virus” e poi gli è stato attribuito il “vero nome”.

 

PF: Sì. Ma è interessante questa storia della ricerca del nome…Noi siamo esposti a questo fenomeno che è socio-semiotico, che è l’esposizione ai rumors, alle voci, le dicerie, leggende metropolitane … questi sono i diversi nomi che ha preso il fenomeno. Non so se ricordi quella che circolava a Siena, in piena crisi della banca del Monte dei Paschi. Raccontava di un tipo che si travestiva da Batman, due che scopavano, lui aveva legato lei e gli si buttava sopra, ma poi era cascato male e così si era rotto una gamba. E quindi lui non riusciva a muoversi e lei era legata, anche lei era un’impiegata di quella banca e lui con la gamba rotta vestito da Batman. E li hanno trovati così. La circolazione di questi “oggetti” non è limitata alla parola, non è solo una parola o limitata a quella sequenza di parole. Perché intanto quelle sequenze di parole possono mescolarsi fra di loro o prendere la forma di un andamento narrativo. Che è un’invenzione completa, un nonsense. Un nonsense suscitato da dati meccanismi.

Ma guarda caso c’è un altro punto: questa storiella non è capitata solo a Siena, perché hanno scoperto che a New York nello stesso periodo raccontavano la stessa storia! E questo significa che questi fenomeni, questi “oggetti” si trasferiscono dall’uno all’altro e da un luogo a un altro in maniera epidemiologica ma che in realtà rispondono di volta in volta a situazioni (ad esempio di crisi) che sono disponibili per accettarle.

FM: C’è anche il punto dei numeri del contagio. Tutti stanno letteralmente “dando i numeri”: il computo e l’aumento giornaliero dei contagiati, il numero dei tamponi o dei “casi positivi”, ora le mappe, ora i guariti, ecc. Uno studioso di medicina diceva: attenzione che non sono i numeri a contare, ma è la dimensione narrativa anche in questo caso…

 

PF: E’ inesorabile che questa epidemia venga narrata. E poi il ruolo dei numeri: è l’effetto di reale, di realtà nel racconto. Intanto è vero se i francesi fanno, ad esempio trecento tamponi e gli altri ne fanno tremila, è ovvio che quando fai il conto finale ti vengono cose diverse. Ma in realtà tu dovresti fare sempre la percentuale. Perché resta il nudo numero? Perché, come diceva benissimo Barthes, è la stessa cosa della pendola Luigi XIV che suona quando la marchesa esce alle cinque? Cioè perché la pendola Luigi XIV suona alle cinque? Poteva essere una qualunque pendola; ma se tu dici, in un racconto, pendola e Luigi XIV rendi più verosimile l’evento, lo rendi “reale”. E’ un problema dell’effetto di realtà. Il problema è che gli scienziati e in particolare gli addetti alla comunicazione scientifica e di emergenza non conoscono le teorie letterarie e della narrazione, ma purtroppo forse anche noi studiosi delle scienze umane cominciamo a dimenticarcele. L’altro punto è che molti non hanno l’abitudine, che è tipica degli studiosi di semiotica, all’omologia, l’omologia dei processi: vale a dire che ci sono dei piani che possono essere omologhi fra di loro. E’ questa l’idea molto semiologica che ci porta a studiare i fenomeni con uno sguardo diverso: passare naturalmente da un piano all’altro; dire che c’è un linguaggio e che si può passare da un linguaggio ad un altro, e che c’è una forma di comunicazione in cui circola un oggetto che addirittura ora ha cambiato nome e si chiama non più “2019-nCoV” ma ora “SARS-CoV-2”.  E che è stato “individuato” anche il nome della nuova malattia: “COVID-19”.

FM: Viene fuori un’idea strategica, di conflitto, e non solo in senso banalmente “metaforico”; sentivamo tutti in questi giorni di chiusura di territori, di zone rosse, di militari, di posti di blocco…in Cina sembrerebbe più naturale ma chiudere il lodigiano con militari fa un certo effetto…senza che peraltro vi sia stata poi una forte opposizione, né di critica, al di là dei leghisti…come vedi questa idea di combattere un nemico, che è un virus, con “strategie di contrasto”, scenari, ecc.?

 

PF: E’ un punto interessante che dicevi: la questione non è tanto se “abbiano esagerato o no”, fare di più o di meno, ma la modalità dell’opporsi. C’è una modalità di tipo strategico, non solo: militare. Paul Virilio sarebbe stato molto colpito: perché lui avrebbe detto: “ecco, avete visto? Il territorio viene suddiviso in zone per essere controllato ecc., con tutti i sistemi, si attivano tutti i meccanismi di sorveglianza”. E’ ben nota l’idea secondo la quale siamo nel periodo del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”: mediante quindi tutti i sistemi di aumento del controllo e della sorveglianza che vengono messi in atto. Qui è chiarissimo, quando vedo che ci sono dei posti a rischio contagio che vengono chiusi con l’esercito. Poi c’è naturalmente anche il tipo che è riuscito a scappare, e così via. Quindi questa idea che tu dici della militarizzazione non è una metafora: è concreta e reale, sono lì. Hai mandato i soldati e la polizia a chiudere quella zona lì: reazione strategico-militare. E naturalmente lo dicono anche loro, i governanti: “noi dobbiamo reagire così” per preventivare lo scenario peggiore. Cioè, loro dicono, hanno un piano: un simulacro, lo scenario peggiore e la giocano sul piano e scenario peggiore, il contagio ampio, la pandemia ecc. Gli altri dicono: “ma no, ma dai, avete esagerato”. Oppure “ma così rovinate il paese e l’economia!”. E allora la cosa si sposta e dicono: “abbiamo anche un altro piano, per controllare, magari, ma solo in modo parziale”. Ma dimenticano che si tratta, appunto, di piani strategici esattamente come in guerra, per, ad esempio, condurre un’offensiva e aggirare il nemico come, per fare un esempio lontano, i tedeschi, passare attraverso il Belgio e l’Olanda per scavalcare la Linea Maginot: questo è il “grande piano”. Poi alla fine ci sono i problemi: allunghi troppo le truppe o le linee di rifornimento o di comunicazione, non ci sono le riserve ecc., e arrivano a fermarti. E poi subentrano diversi piani, come per la prima guerra mondiale, se il primo grande piano fallisce, facciamo i buchi, le trincee e ci mettiamo la gente dentro. E ci fermiamo alla guerra di posizione.

Il fatto di avere diversi piani implica che in questi giorni stavano litigando sul fatto di quali usare, e di aver avuto diverse strategie di controllo e contrasto, eccetera. E’ vero. La risposta degli altri, di chi ha deciso è: “perché noi giochiamo la risposta allo scenario peggiore”. Gli oppositori e i commentatori critici dicono: “ma non ne valeva la pena”. Ed è interessante questo caso perché si dà volto a piani diversi; che però, sono, certo, piani di controllo.

Mai c’è stato un momento diverso dall’attuale per dire che il capitalismo di oggi è il capitalismo di controllo: sorveglianza e controllo. C’è la possibilità oggi di mettere in campo concretamente le teorie della sorveglianza e del controllo che sono state concepite negli scorsi decenni (da Foucault a Deleuze e Guattari). L’idea della sorveglianza: ogni volta a Rimini c’è una riunione su questo tema (e ne sono orgogliosissimo di questo!) è la città e la provincia dove, pare, c’è il massimo di furti in appartamento; e allora, è la città con il massimo di benessere per la vita, massaggi … ed è evidentemente quella con il massimo di furti di appartamento; forse ci dev’essere una correlazione, dirà qualche sociologo… Più in generale, ogni volta che c’è un problema chiedono di aumentare i controlli, con telecamere di sorveglianza ecc. Tornando al contagio, questo è il momento in cui l’epidemia, senza che ne conosciamo le logiche interne, e forse non le sapremo mai, come le origini ecc., improvvisamente ciò fa sì che si mettano in gioco tutti i sistemi di controllo possibili. E questo è tanto più socialmente interessante. E nessuno poi si arrabbierà più di tanto, anzi, tranne alcuni, tutti alla fine diranno: “meno male che c’è questo controllo”. Ma non si rendono conto che questa è un’altra ragione: una ragione al tempo stesso organico-biologica che però mette in gioco una ragione sociale-culturale che è quella di tutti i meccanismi di controllo e sorveglianza. Questo dobbiamo dirlo: e non lo dicono in molti.