Già il convivio temeva le folle
di Donatella Puliga
Il piacere della tavola nelle culture greca e romana: un momento con significati civili, politici, poetici, musicali, erotici. Il numero giusto degli invitati? Fra tre (come le Grazie) e nove (come le Muse).
«Il piacere della tavola è di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i Paesi; può associarsi a tutti gli altri piaceri, e rimane per ultimo a consolarci di averli perduti». Così Brillat Savarin, nella Fisiologia del gusto, ritrae una gioia dalle radici antiche: già per Ulisse il momento più dolce era quello in cui «i convitati nella sala ascoltano il cantore, le tavole sono ricolme di pani e carni, e attingendo al cratere il coppiere porta il vino e lo versa». Le più antiche attestazioni conviviali greche sono i banchetti dei poemi omerici, descritti come pasto comune degli eroi o degli dèi sull’Olimpo. A quel mondo non appartiene ancora la dimensione del simposio, che nelle età successive si strutturerà come riunione conviviale che segue la cena, caratterizzata dal bere insieme (syn-pino), con una configurazione rituale e con implicazioni politiche, poetiche, erotiche, musicali. Del resto, la cifra di un incontro fondato sull’uso ritualizzato del vino, che si beveva mescolato con acqua ed era consumato con misura, non può che essere la mescolanza istituzionalizzata di impegno ed evasione, serietà e gioco. Nel simposio si manteneva e si rafforzava il vincolo tra i membri del gruppo e bouléuesthai parà pòton («consigliarsi e deliberare insieme durante la bevuta») produceva decisioni importanti per la vita della città.
L’altissimo significato del simposio, che fiorisce al tempo delle oligarchie aristocratiche (tra il VII e il V secolo a.C.), è espresso dalla poesia lirica, di cui rappresenta l’occasione di nascita e diffusione. Ma anche quando si affermano i regimi democratici, non smette di costituire un orizzonte culturale pieno di significato, fino a diventare un genere letterario: dall’omonimo dialogo di Platone a quello satirico di Luciano, dalle Questioni conviviali di Plutarco ai Sapienti a banchetto di Ateneo, sono molte le testimonianze del legame tra ambito conviviale e cultura, tra consumo ritualizzato del vino e piacere intellettuale della conversazione.
Questo elemento prevale nel convivium romano, in cui — già a partire dal termine che lo definisce — è il cum-vivere, lo stare insieme, a essere privilegiato rispetto al bere insieme. Già nella pirotecnica elaborazione delle vivande, che devono soprattutto stupire, il banchetto romano si pone più sul piano culturale che su quello naturale del soddisfacimento di un bisogno. A differenza del simposio, riunione maschile a cui le donne partecipano solo in funzione dell’intrattenimento musicale ed erotico, a Roma — come nel mondo etrusco — esse sono presenti a tutti gli effetti. Ancora, se il simposio greco è una riunione tra pari, il convivium romano è fondato sulla disuguaglianza: i posti nei triclini si disponevano in una precisa gerarchia, perfino cibi e bevande erano diversificati a seconda del livello sociale degli invitati. Il numero ideale dei partecipanti al banchetto — dice Varrone — era compreso tra quello delle Grazie (tre) e quello delle Muse (nove). Anche allora una certa inquietudine creavano gli assembramenti, se un’altra fonte precisa: septem convivium, novem vero convicium, in sette è un banchetto, in nove è un convicium, una «concitata sovrapposizione di voci».
I temi di conversazione dovevano essere ispirati alla piacevolezza, oltre che al senso della utilitas sociale ed educativa: i carmina convivalia cantavano imprese di personaggi storico-mitici che venivano ricollegati alla famiglia ospitante. Abitare lo spazio del convivium significava incontrarsi, ma anche rafforzare la propria identità e i propri mores: stando a tavola si impara, e non solo attraverso i sapori, lettere di un alfabeto infinito.
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