Jean-Charles Vegliante è professore, poeta,
traduttore della Commedia di Dante.
Ogni volta che lo vedo provo sempre
un po’ di soggezione
perché da capitano di lungo corso,
i suoi anni di navigazione nei marosi delle lettere
sono il doppio dei miei ma soprattutto
perché ha uno smisurato talento
di traduttore e poeta.
Poeta, passeur, traghettatore. Ci vuoi raccontare la genealogia del tuo primo viaggio di quando hai traghettato te stesso?
Io sono venuto via con mia madre, da Roma, per raggiungere mio padre che era già immigrato in Francia e aveva ottenuto un permesso di ricongiungimento. Molto difficile per allora, siamo negli anni cinquanta. Avevo sei anni e non avevo nessun racconto preparatorio della città. La prima esperienza fu l’attraversamento del paesaggio, il vuoto, il deserto interrotto di tanto in tanto da qualche mucca. Si trattava di un vero viaggio per il tempo che ci voleva allora per simili tratte. Comunque, per tornare alla tua domanda, il traduttore se davvero traduce, deve sempre traghettare se stesso.
C’è un’ immagine che possa raccontare questa tua esperienza di sradicamento da una parte e costruzione dall’altra in questa prima infanzia? Un incontro con un maestro che ha fatto scaturire in te questo amore per la poesia?
Di fatto la costruzione era in un senso, una coerenza, il resto era nostalgia. Però più che con maestri il vero incontro avvenne con la lingua. Io ho imparato la lingua attraverso Le chasseur français, che era un catalogo di oggetti domestici, fucili, fai-da-te, un numero all’anno, e lì dentro c’era l’universo.
La tua enciclopedia era questo catalogo di oggetti?
Del resto anche i barocchi andavano verso questa enciclopedia delle cose, tutto il mondo, l’universo intero in un solo libro. Si trattava di parole illustrate, con disegni molto precisi. E maestra è stata la scuola francese, laica, tollerante. Dei maestri ne ricordo uno, alsaziano d’origine, che aveva un leggero accento e che in ragione di questo si sforzava di fare ancora più attenzione alla pronuncia di questa lingua perfetta, chiamata francese. E attraverso la lingua, la letteratura di cui ti appropri. Leggevo di tutto, amavo molto Victor Hugo, ma non ne ricordo nessuna poesia a memoria; nemmeno delle mie del resto. La memoria per queste cose non serve più, davvero. La scrittura fa sì che tutto viene cancellato mentre scrivi. Un oblio permanente…
Ecco, ottima espressione. Come la rivoluzione. Però intanto permaneva un rapporto con l’altra tua lingua, quella dell’ origine…
Era una lingua cartacea, letteraria, che trovavo nei libri. Del resto, si sa quanto la poesia abbia avuto da sempre anche un ruolo di conservazione della lingua.
E’ curiosa questa cosa, perché in genere la lingua dell’origine si esprimeva nelle comunità di chi era migrato, nell’oralità, nel parlato…
Mio padre, che in Italia aveva avuto il suo benché modesto ruolo anche appena appena intellettuale (ossia: tecnico nella Regia Marina), qua faceva il maçon (bada che non è esattamente il muratore) e non lo vedevo quasi mai; dalla sixième in poi, comunque, sono andato in un liceo-convitto e tornavo a casa soltanto una domenica su tre, quindi… capirai.
Mia madre, casalinga, cantava e così un poco si cantava anche noi in casa, e raccontava barzellette strane, a base di dicerie e di nomignoli del lasciato e quasi dimenticato “paese”… tutta una cultura “bassa” antropologica che sennò dove la trovavo? Quella non la insegna nessuno… o forse adesso sì, in qualche College privato e facoltosissimo degli Stati Uniti. Da noi c’erano soprattutto i (miei) libri, e le canzoni, soprattutto la canzone napoletana e romana. Per il resto ricordo che in quella mia adolescenza mi appassionavano tutti i saperi. Vedi, per esempio la cosa che ti dicevo sulla memoria, è vera fino a un certo punto. Io per esempio mi appassionavo tantissimo soprattutto alle scienze naturali. Ero come stregato dalla botanica… che invece ricordo bene. Quello che ti dicevo a proposito della memoria è diverso se parliamo di botanica. Se tu mi mostrassi un fiore, una pianta saprei dirti il nome, di tutte le piante di tutti i fiori. Beh, quasi. Nella mia ultima plaquette, Urbanités, tutti sono rimasti… tutti, diciamo i tre, quattro lettori…
Anche dodici, Jean-Charles…
Dodici no, dodici non mi piace, preferisco undici. Dodici fa troppo apostoli… Poi c’è tredici subito dopo. Comunque, tutti questi sono rimasti colpiti dall’invadenza della natura nonostante si tratti essenzialmente di luoghi parigini. Campanule, lungo i marciapiedi, alianti sui binari, cose spurie. E comunque tutta quell’esperienza della scuola, della scuola che abbiamo conosciuto fino a trent’anni fa, che si chiama l’École de la Troisième République, da Jules Ferry in poi era davvero eccezionale. Era fondata sul merito, che si trattasse del primo ministro Valls o di qualcuno come me non ci sarebbero state disuguaglianze.
A proposito di scuola fondata sul merito, è vero quello che diceva per esempio un filosofo francese Jean-Claude Michéa che prima del maggio ’68 vi fossero più ascensori sociali, più mobilità tra le classi?
Assolutamente sì. Io ho fatto l’École Normale e come compagni di corso avevo uno spagnolo che era figlio di una portiera, orfano di padre, ed eravamo quattro cinque ad essere di questa estrazione sociale, assai modesta per una Grande École. Non so se oggi sia ancora possibile questa cosa.
Visto che la tua produzione letteraria è sia saggistica che poetica da dove hai cominciato?
E’ stato un saggio. Un saggio sulla poesia trobadorica. René Nelli l’autore de L’érotique des troubadors, voleva fare una cosa sui fedeli d’amore, ed aveva bisogno di un collaboratore e di un traduttore; così aveva chiesto alla Normale un italianista, un giovane, e c’ero solo io, perché di italianisti ce n’era al massimo uno per anno. Il saggio si intitolava Poètes italiens de l’Amour et de l’Obscur (XIIIe et XIVe siècles), numero speciale di Sud.
Quali sono state per te davvero delle grandi sorprese, in positivo o in negativo, nella ricezione degli autori italiani che traducevi e proponevi al lettore francese?
Risposte entusiaste ed entusiasmanti sinceramente mai. A proposito della meritocrazia di cui dicevamo prima vorrei aggiungere che questa meritocrazia si ferma, a un certo punto. Cioè chi è immigrato, figlio di immigrati non riesce a passare un certo valico attraverso il quale altri, magari senza gli stessi meriti passano senza far niente, quella è la discriminazione sociale. La cultura è emanazione diretta del capitale. Punto. Vuoi fare il professore, benissimo, anzi ci servi e non ti nascondo che quasi mi spinsero ad occuparmi di Letteratura Italiana. A me sarebbe di gran lunga interessato di più la botanica, o la storia, ma di storici ce n’erano già. Ricordo per esempio l’esame di storia antica alla Normale, interrogazione a mitragliatrice, si diceva, presi venti su venti. In Italiano poco più della sufficienza eppure era lì che avevano bisogno di me. Intendiamoci, nessun rimpianto per quella che è stata la mia storia di autore e traduttore, però la botanica resta il primo amore.
Autore, tra l’altro di epiche imprese, come la traduzione della Commedia, uscita con Gallimard. A proposito dell’insperato successo di alcuni autori italiani, comunque minori, pur non essendotene occupato, sorprende l’entusiastica accoglienza di un Dino Campana.
I suoi Canti Orfici, sono l’eccezione che conferma la regola, ha avuto tanti traduttori molto validi a partire dal primo, Michel Sager, amico di Amelia Rosselli, poetessa che ho conosciuto e frequentato qui a Parigi. E poi l’ultimo, Christophe Mileschi. Per tutti gli altri è difficilissimo, perfino Montale. Trent’anni fa per esempio avevo proposto a un grande editore, di cui non diciamo il nome, Umberto Saba, Franco Fortini… beh in questo caso potevo anche capire il maggiore rischio editoriale, così come Vittorio Sereni, niente da fare. Certo, quando mi si è presentata l’occasione ho potuto barattare la mia disponibilità verso un lavoro a condizione che mi accordassero la possibilità di fare altro. Quando l’Imprimerie Nationale mi commissionò Dante in virtù della reputazione che mi ero fatto sul campo grazie a innumerevoli traduzioni su riviste, atti di convegni ecc, accettai a condizione però che pubblicassero la traduzione fatta da Audiberti degli episodi amorosi della Gerusalemme Liberata. Jacques Audiberti, l’amico dell’artista Beniamino Joppolo, già fondatore insieme a Fontana dello Spazialismo e con Audiberti dell’Abumanesimo: oggi sta tornando d’attualità.
L’amicizia tra i poeti?
Giovanni Raboni mi ha accolto da gran signore dell’editoria com’era (e come ahimé non c’è stato dopo più nessuno) e mi ha proposto senza nessuna forma di contropartita di tradurre per la bianca Einaudi una selezione delle mie poesie. Mi ha anche ospitato per la registrazione di quel dialogo che puoi leggere in fondo al librino, e che vedo molto citato (più delle stesse mie poesie) un po’ dappertutto… tornato a Parigi per sbobinare, mi sono accorto che non avevo registrato nulla, e lui via posta mi ha aiutato a ritrovare (e riscrivere) quasi tutto. Pazzesco ma vero. Posso capire la specie di venerazione che l’amica Patrizia Valduga nutre ancora per lui, curandone il sito, cercando di farlo commemorare quando c’è l’occasione, insomma un amore vero, da quanto ne posso sapere. In breve, un esempio unico nella grande Palus delle case, cappelle, combriccole e mafie (editoriali e non).
Ma torniamo a te, tu sei l’unica persona che io conosca così assolutamente underground e altrettanto accademico. Come la racconti questa doppia sensibilità?
La lingua biforcuta dell’interprete: italiani, ebrei, portoghesi, i levantini in pieno impero ottomano ecc. Rischiavano anche la vita, come chi traduceva la Bibbia, per esempio, era considerato un eretico perché quella doveva rimanere in latino.
Il tema di questo numero di Focus In è la spiritualità. Il sacro, per te cos’è?
Direi che si manifesta nella comunione, comunicazione (del bifario e non), essere su due, tre parti contemporaneamente. Per me l’utopia è quella della lingua, delle lingue che riescono a comunicare tra loro, organismi che riescono ad adattarsi ad altri organismi, vicini italiano/francese, o distantissimi italiano/cinese. Anche il puro suono di lingue sconosciute che a volte si sentono alla radio…
Perché nei nostri tempi le lingue così organiche si sono poi così ingessate?
Normalizzare le lingue è stato necessario perché le persone si capissero, ed è una normalizzazione che poteva accadere anche dal basso, per esempio durante la grande guerra. Come l’ufficiale austriaco che vedeva i nostri soldati prigionieri, da regioni diverse, che nonostante tutto riuscivano a parlarsi e a capirsi. Anzi, se per caso costui era Leo Spitzer, ne faceva anche un libro (uscito nel 1921).
La tua memoria da esule è anche politica?
L’Italia è stata rovinata nel passaggio alla modernità dal capitalismo finanziario, dal “voler far l’americano”, dalla globalizzazione, tutte cose che in Berlusconi si sono compiute ma che erano state presenti anche prima, per cui una certa resistenza è più facile trovarla all’estero.
Cosa significa politicamente essere poeta?
Oggi penso soprattutto alla rete. Sola via praticabile per chi traduce, ma anche per i testi originali. La poesia italiana dei giovani, giovanissimi di appena venticinque anni, è veramente in uno stato di grazia ai nostri giorni.
Ci sono poeti di lingua italiana ma non originari del nostro paese che stano offrendo delle prove molto importanti. A me è capitato di conoscerne uno a un festival a Bologna, Julian Zhara, albanese e performer davvero notevole…
Il prossimo numero d’Une autre poésie italienne, il sito creato con alcuni colleghi del dipartimento a Paris 3, lo dedicheremo proprio a loro, particolarmente a tre (ancora giovani) poeti d’origine non italiana.
Jean-Charles, l’esperanto è un’utopia?
C’è qualcosa di troppo artificiale, quasi imposto dall’alto nelle sue regole. La lingua artificiale non esiste. Quando penso alla contaminazione a me viene da pensare a Cielo D’Alcamo; la metrica da lui usata per esempio, con verso doppio e un vuoto, una profondità. Pensa a Rosa fresca aulentissssiiiiiiiiima, qui il verso cade, ch’apari inver’ la state. È una metrica araba, doppio settenario, infatti lui era un poeta tra le due culture. C’è da sempre in Italia un tipo di creolizzazione sul modello dei francesi, dei francesi dei caraibi, nella nostra letteratura, per esempio Atzeni ma lo stesso Camilleri. Tu mi chiedevi di una mia prima pubblicazione, ecco era un lavoro sul testo di Dante, scritto a partire dalla mia ricezione della Commedia, Vers l’Amont Dante, e Franco Fortini disse del mio lavoro che era un perfetto esempio di “traduzione e rifacimento” insieme.
L’oralità?
L’oralità è un ritmo. Me lo ha detto Raboni quando mi aveva tradotto. Mi disse che il mio libro in francese, era in realtà scritto in italiano, cioè su ritmi italiani. Questa oralità interna, la pronuncia silenziosa, è fondamentale; io per esempio non mi sento dalla parte dello Slam ma neanche della poesia solo scritta. Come diceva Fortini una vera poesia la puoi leggere pure in un tubo di cartone, o con un accento strambo, ma ne sentirai la forza; prova a farlo con una poesia di Dante, vedrai che seppure non si capiscono i versi ne riconoscerai il ritmo.
Jean-Charles Vegliante, nato a Roma, vive a Parigi dove è professore emerito all’Università Sorbonne Nouvelle.
Poeta-traduttore, ha tradotto e curato l’edizione bilingue della Commedia e della Vita nova; Tra i suoi libri di poesie: Rien commun, Nel lutto della luce, tr. G. Raboni, e Urbanités. Tra i saggi segnaliamo D’écrire la traduction.
Vegliante è specialista di letteratura italiana, ritmo, transfert culturali. Ha curato testi francesi di Ungaretti, De Chirico, Rosselli, Magnelli. Attualmente con un gruppo di ricerca della Sorbonne Nouvelle sta lavorando a una nuova traduzione dei Canti di Leopardi e a dei testi su Pascoli (in cerca d’editore). Ultima raccolta edita, Où nul ne veut se tenir, Bruxelles 2016.
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