Museo e social network
Disturbi di fruizione e bisogni di mercato.
di Sirio La Pietra
“Se alla fotografia si permetterà di integrare l’arte
in alcune delle sue funzioni,
quest’ultima verrà ben presto soppiantata e rovinata
da essa, grazie alla sua
naturale alleanza con la moltitudine”.
Charles Baudelaire
Il fenomeno delle foto nei musei è stato naturalmente provocato dall’onda d’urto sorta dalle nuove tecnologie, che consentono a ogni visitatore di poter riprodurre autonomamente immagini non più con le classiche macchine fotografiche, ma con più piccoli e maneggevoli smartphone. Il pubblico, da parte sua, vuole essere maggiormente coinvolto nell’esperienza museale, rivestendo un ruolo attivo nell’esposizione. Ci troviamo oggi a dover fare i conti con un nuovo tipo di visitatore, che ha nella fotografia il suo strumento diaristico privilegiato, meno esperto da un punto di vista della tecnica fotografica rispetto a un fotoamatore dei primi anni 2000. Armato di dispositivi elettronici che possono anche scattare fotografie, durante la sua visita al museo realizza souvenir fotografici, molti dei quali sono quegli autoscatti fatti a braccia tese, ormai noti come selfie. Senza volerci impelagare in questioni di natura sociologica possiamo, con tutte le accortezze del caso, provare ad affermare che questo gesto, ormai innocuo e consueto, in realtà nasconda un bisogno di appropriazione che il visitatore ha nei confronti di un’icona più che di un oggetto artistico, affiancando la propria figura a quella dell’opera.
Questa prassi coniuga perfettamente il narcisismo dell’uomo digitale con l’istanza diaristica tipica dell’individuo di massa contemporaneo.
Questo è un concetto essenziale: la centralità dello spettatore, che oltrepassa il senso e il valore delle opere. Questa non vuole essere una critica generica alla modernità e alle nuove esigenze del mercato, tuttavia bisogna prendere atto che la cultura, come ogni settore, non è riuscita a sottrarsi a queste logiche che, per quanto costringano l’azienda museo a migliorare la propria offerta per i visitatori, spesso però trascura il valore storico delle opere gettando queste nel circuito della comunicazione.
Ovviamente si fa riferimento a social network come Instagram, Facebook, cioè quelli che hanno contenuti multimediali. Il problema di vicinanza tra questi due mondi suscita non poche perplessità. Una sicuramente di natura estetica: il museo, per quanto secondario nella vita delle masse, gode di un ammirazione quasi religiosa nell’opinione di molti, è considerato il contenitore della storia, della tradizione ecc… I social network sono da una parte il simbolo dei tempi moderni e dall’altra sono un esempio dell’esasperazione della vita quotidiana. Mettere a confronto queste testimonianze, una relativa alle fasi salienti della storia dell’umanità, l’altra che è un contenitore di cose comuni e, se vogliamo, banali, risulta essere spaesante agli occhi di molti. Il sentimento del comico, come spiega Luigi Pirandello nel suo saggio L’umorismo, nasce dall’accostamento di due opposti uniti nella medesima figura rappresentata, che in alcuni casi genera ilarità e spaesamento. Infatti sui social è nata una linea comica legata all’arte che unisce la sacralità delle icone dell’arte alle faccende della vita quotidiana.
Ecco solo uno dei moltissimi esempi che si possono trovare sul web.
A primo impatto questo potrebbe apparire come una desacralizzazione di un’opera e sembrerebbe questa la minaccia che le opere o l’arte, più in generale, subiscono da questo rapporto con i nuovi media; tuttavia, questa riguarda solo la sfera della apparenza, poiché questo genere di accostamenti non fa altro che consacrare le icone artistiche nella sfera delle cose alte che non dovrebbero mescolarsi con le cose basse del quotidiano. Dunque anche se questo genere di cose ci appaiono come schiaffi alla storia, esse non fanno altro che confermarne il valore.
Il problema che si riscontra in questa storia è che l’immissione in questi media di alcune opere portano alla luce nient’altro che un’informazione sul valore dell’opera, un valore che però non ha ragioni, basi storiche ecc… Resta solo la grandezza che, seppure effettiva, senza l’aggiunta di alcune informazioni, è inutile e ovviamente fuorviante ma che, in qualche modo, coinvolge lo stesso i visitatori, che, come dice Jean Dubuffet in Asphyxiante Culture, “è estremamente raro incontrare una persona che confessa di avere poca considerazione per una tragedia di Racine o un dipinto di Raffello. Sia tra intellettuali che tra gli altri. È persino sorprendente che sia piuttosto tra gli altri, quelli che non hanno mai letto una riga di Racine né visto un quadro di Raffaello, che sono i difensori più accaniti di questi valori mitici’’.
E qui entriamo nella sfera dei difetti di sistema dei nuovi media che seppure servono ad accentuare il coinvolgimento del pubblico verso l’arte, dall’altra riescono a fare a meno della conoscenza di questa rendendo estremamente complesso il rapporto tra la diffusione di contenuti artistici e la conoscenza. Sì, perché è la conoscenza dell’arte l’obiettivo dell’istituzione museale (pubblica) e non un numero sempre crescente di visitatori.
Questo rapporto pone un altro problema, di natura ontologica.
“Il successo di una organizzazione è funzione dei pensieri e delle emozioni che i mercati target collegano alla stessa organizzazione, alle sue offerte ed ai suoi operatori. Calarsi nella mente e nel cuore di un utente, effettivo o potenziale, comprenderne i comportamenti e gli stili di vita, conoscere in modo sistematico i bisogni, i desideri, le percezioni, gli atteggiamenti, le preferenze sono una chiave per sostenere in modo continuativo un processo di fruizione culturale. Ciò non significa dipendere dal capriccio di un “consumatore” qualsiasi o compromettere l’integrità legata alla missione del museo, ma costruire una dualità di rapporto per quanto riguarda la valutazione della sua qualità e del suo servizio.”
Questa parte dell’intervento di Lauretta Longagnani contenuto ne I pubblici dei musei: conoscenza e politiche a cura di Alessandro Bollo (2008) sottolinea come il museo debba cercare di porsi in una posizione di ascolto verso i suoi pubblici, attuando i processi di produzione culturale rivolti alle loro molteplici e diverse esigenze di apprendimento.
È interessante notare come tuttavia ci si ponga il dubbio di dover prendere le distanze dall’interpretare il visitatore come un consumatore e, poiché questa “giustificazione’’ appare valida e coerente, ci dà anche la prova che un’ipotesi del genere sia possibile. Ci pone in una atmosfera di dubbio: un grande museo deve la sua sopravvivenza ai visitatori, i social sono un’opportunità per coinvolgere un numero sempre maggiore di visitatori, ma un grande numero di visitatori coinvolti non ci dà perfettamente la prova di aver contribuito a creare una società più saggia e consapevole della propria storia.
Dunque l’ingresso dei social nelle strutture museali che comportano una maggiore affluenza ma un decrescente approfondimento (vista la natura della piattaforma) sono una base per la conoscenza o un’alternativa che prende il posto di questa? È una domanda che si rimette all’agire secondo coscienza dei direttori dei musei e che non ha una risposta univoca. La grande sfida della cultura di questi anni riguarda la soluzione a questa dicotomia.