Il Petit Palais spunta i riflettori su Napoli, mettendo in luce due artisti difficilmente più agli antipodi di così e non solo per l’epoca. Due inedite retrospettive: Luca Giordano e Vincenzo Gemito. La volontà di Christophe Leribault (direttore del museo) è di far conoscere meglio in Francia questi due “guaglioni” dell’arte, ancora poco noti, nonostante la rinomanza riscontrata in vita e rispetto alle rivelanti ripercussioni artistiche ispirate. Una stagione partenopea che si apre all’insegna del contrasto e allo stesso tempo dell’unisono, quello dell’Anima Napoletana, tra “miseria e nobiltà”.
Luca Giordano, la stella del trionfo napoletano
Luca Giordano, Madonna del Rosario al baldacchino, 1680
Museo Real Bosco di Capodimonte
© Ministero per i beni e le attività culturali
Il grande pubblico e gli specialisti d’arte l’aspettavano con ansia, ecco la prima retrospettiva consacrata in Francia a Luca Giordano, pittore napoletano, certo, ma uno degli artisti più brillanti del XVII secolo europeo! Difficile farsi un nome per un artista in quell’epoca gravida di affermati maestri, allora Luca Giordano s’impregna dei più grandi! “Impara l’arte e mettila da parte”, dice il proverbio, infatti Luca assimila cupidamente il naturalismo di Caravaggio, il tenebrismo di Jusepe de Ribera (di cui sarà un superdotato allievo), si esercita realizzando delle superbe imitazioni (pastiche) di Raffaello, Tiziano, Tintoretto, Guido Reni, Dürer. La formazione romana gli rivela la modernità barocca di Rubens e le innovazioni neoveneziane elaborate da Nicolas Poussin e Pietro da Cortona. A Parma, ricopia le opere del Correggio e di Veronese. Insomma attinge bulimicamente dai migliori a tal punto di essere tacciato anche di falsario. In realtà Giordano non “sfida” l’eccellenza dei maestri per mancanza d’ispirazione, al contrario, dimostra e affina il suo virtuosismo rendendo loro omaggio e, nel contempo, assimilandone la maniera. È il caso della “Santa famiglia con il piccolo San Giovanni battista” presentata nella mostra, attribuita inizialmente a Raffaello, prima di essere riconosciuta come opera giovanile di Luca Giordano. In “Giacobbe e Rachele al pozzo”(1685) è evidente l’assimilazione della paletta rinascimentale veneziana, così come il“Cristo davanti Pilato”(1682) e “L’Adorazione dei pastori”(1688) sono caratterizzati invece da una vena di misticismo popolare, manifestamente nordico.
La sua straordinaria memoria visiva si trasforma in una vera banca d’immagini, costituita tra Roma, Firenze, Venezia e allargata all’Europa, registrando oltre due secoli di pittura! Giordano tira il meglio delle diverse correnti artistiche passate e dell’epoca per dare origine a uno stile tutto suo, tra i più seducenti del secolo. È la tesi che questa mostra intende dimostrare, sotto la guida scientifica dei suoi tre curatori: Stefano Causa, Sylvain Bellenger e Christophe Leribault (direttore delPetit Palais).
A questa memoria visiva, Giordano associa una formazione rigorosa e instancabile iniziata già all’età di 8 anni, sotto l’egida del padre Antonio (modesto pittore ma efficace mentore) che gli procura un virtuosismo tecnico tale da consentirgli di lavorare così efficientemente e rapidamente da essere soprannominato ‘Luca Fapresto’ (= Luca fai presto) .
La seconda sala della mostra trasporta subito lo spettatore in quest’universo spettacolare, dominato da un’imponente statua in argento (“San Michele arcangelo”,1689 di Lorenzo Vaccaro e Gian Domenico Vinaccia), dove le pale d’altare liricamente barocche (esaltate da una scenografia particolarmente suggestiva e su misura) sono ispirate dall’impulso controriformistico dell’epoca e colpiscono per l’apparente facilità d’esecuzione: le pennellate scompaiono, senza tracce ma la pittura è onnipresente. Nel “San Michele scaccia gli angeli ribelli”(1657) — tra i primi importanti ordini per la Chiesa dell’Ascensione a Chiaia — è emblematico il gioco di citazioni di Luca Giordano: Dio indica con un gesto all’arcangelo Michele di attaccare Lucifero e i suoi seguaci. A sua volta, San Michele indica Dio. Gli indici reciprocamente puntati, benché qui più distanti, richiamano direttamente alla mente quelli di Dio e di Adamo nel celebre affresco di Michelangelo sulla volta della Sistina! (Michelangelo, “Creazione di Adamo”, 1511 ca.). Nel dipinto, ispirato dall’apocalisse di San Giovanni evangelista, l’impronta “riberesca” della parte inferiore, caratterizzata dalla presenza dei demoni, lascia il posto, nella parte superiore, alla figura di San Michele, differenziata da evidenti influssi della pittura veneziana. Si capisce subito che il talento di Giordano è di “domare” l’infinito flusso di pittura assimilato nella sua formazione, per costruire delle composizioni dinamiche, innovative e d’impatto: in questo caso, le sensazioni di caduta e gravità avvolgono turbinosamente lo spettatore.
Questo “sensazionalismo” gli è sicuramente trasmesso anche dal singolare contesto della Napoli seicentesca, immersa in una religiosità quasi pagana, dove la Controriforma, diversamente da Roma, si adatta al culto “familiarizzato” e teatrale dei numerosi Santi locali.
Se non siete mai stati al museo di Capodimonte, questa mostra è l’occasione di ammirare uno straordinario dipinto dall’incredibile shock emozionale: nel “San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste”, Giordano associa l’esaltazione umanizzata del Santo patrono (che ne perde la Mitra) alla rappresentazione crudissima dell’epidemia nelle strade di Napoli, in un confronto triviale tra devozione e realtà (la peste del 1656 decimò più della metà della popolazione, contando da 10.000 a 15.000 decessi al giorno). Nel grigio registro inferiore del quadro si svolge la raccolta dei cadaveri ammassati, effettuata da un monatto a naso coperto (un addetto pubblico al triste trasporto, spesso immune dal morbo o guaritore) designato col palmo della mano dal Santo nel miracoloso suo ennesimo atto d’intercessione (secondo la leggenda, San Gennaro salvò già la città nel 1631 dalla lava del Vesuvio).
Il senso di continuità evidente nelle pale d’altare qui presenti sembra essere uno spazio appena sufficiente però a Luca Giordano. Le sue composizioni sembrano poter continuare tranquillamente oltre la cornice, oltre la tela. Come se, anche i formati così grandi, fossero spazi ancora troppo piccoli: La biondissima “Madonna del Rosario al badacchino”(1680) sembra star stretta nei limiti del telaio! Vent’anni più tardi i numerosi affreschi realizzati nelle chiese di Napoli, a Firenze e nei numerosi cantieri spagnoli gli permetteranno di soddisfare questa sua sete spaziale.
Luca Giordano, Arianna Abbandonata, 1675-80
Museo di Castelvecchio, Verona
© Verona, Museo di Castelvecchio, Archivio fotografico
In margine alla produzione religiosa, gli autoritratti che seguono le età dell’artista all’inizio del percorso (curiosi quelli con occhiali), così come la serie degli antichi filosofi, mostrano poi le originali qualità ritrattistiche di Luca Giordano. Personaggi dipinti su fondo scuro che rimandano a Caravaggio o Ribera, con volti e abiti ripresi tra i mendicanti napoletani, con attributi sapienti ma evocati pittorescamente più dei frequentatori d’osterie che di biblioteche: immagini forti!
Luca Giordano è onnipresente nelle chiese di Napoli, ma viaggia e si adatta a tutti i generi. I soggiorni fiorentini (1660, 1682 e 1685) lo vedono impegnato su ordini di soggetti sacri per la borghesia toscana (affreschi della cappella Corsini e per la volta del palazzo Medici-Riccardi) ma anche su soggetti tutt’altro che religiosi. La Firenze medicea ama i temi mitologici e Giordano si accomoda perfettamente in questo più libero registro che gli permette di eseguire una pittura seducente e senza veli, in aperta eco alle voluttuose anatomie delle veneri di Tiziano ma con un copywritebarocco-napoletano di stampo più libertino. Che accompagnino azioni mitologiche emozionalmente forti, come il sibillino e teatrale torpore nell’“Arianna abbandonata”(1675-80) o il “callipigio” oltraggio di “Lucrezia e Tarquinio”(166), o ancora prendano le pose lascive di ammalianti veneri: “Venere dormiente con Cupido e satiro”(1670 ca.), le opere qui presentate risvegliano il lato voyeurdei visitatori, naturalmente ricettivi alla sensualità di Venus.
Jusepe de Ribera
(lo Spagnoletto)
Xàtiva 1591 – Napoli 1652)
Apollo e Marsia
1637
olio su tela
182 × 232 cm
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Luca Giordano è rivalutato nell’esposizione anche in quanto disegnatore. Seppure adepto dei formati più grandi, l’artista non lesina certo nell’esecuzione di schizzi preparatori. Nella sezione grafica della mostra, il tratto sembra essere la chiave per accedere al suo universo. L’artista annota insaziabilmente, come in un repertorio disegnato, dettagli e motivi relativi alle epoche o correnti artistiche quali eventuali fonti d’ispirazione. Al di là di questa produzione preparatoria, Luca Giordano realizza anche dei disegni dalle composizioni ben più impostate e rifinite, eppure mai tradotti in pittura; sintomo, per i curatori della mostra, dell’importanza centrale che l’artista accordava all’arte del disegno:“Juditta e Oloferne”, “Susanna al bagno”…
Scenografia e luci sublimano la mostra alternandosi tra ambienti più scuri o luminosi, seguendo gli stili dell’artista. Le sale si succedono articolate da ampie prospettive teatrali dai toni, blu, verde, ocra, oro, rosso, bianco in accordo con le opere, evocando i luoghi d’origine dei dipinti: cappelle, oratori, corridoi, saloni, palazzi, tra magnificenza italiana e austerità iberica. Un’efficace ricostituzione immersiva (suono e video) ricostituisce anche gli immensi affreschi dell’Escuriale del Buen Retiro, realizzati in Spagna quando la reputazione internazionale di Luca Giordano gli apre le porte della Madrid di Charles II, per ben 10 anni (1692-1702).
Spettacolare è il termine che definisce meglio la pittura di Luca Giordano e il corpus delle opere esposte lo dimostra. Se altri arditi pittori gli succederanno a Napoli alla fine del Seicento (Francesco Solimena), Giordano resta una viva fonte d’ispirazione per molti artisti francesi del XVIII (Jean-Honoré Fragonard), ritornando a splendere oggi al Petit Palaiscome una stella del trionfo napoletano.
Luca Giordano (1634-1705)
Le triomphe de la peinture napolitaine
Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris,
Avenue Winston-Churchill 75008 Paris
fino al 23 febbraio 2020
Vincenzo Gemito, ‘O’ mast scurdore’* dell’anima napoletana
“Ci vorrebbe un museo speciale per simili artisti, altroché trovare i loro capolavori in vendita nelle vetrine dei camiciai [ … ] . In Gemito si riconosce quella capacità eminentemente classica di rivelare il lato spettrale e occulto di un’apparizione, mostrando quello che è e, nel tempo stesso, quello che forse è stato”
Giorgio De Chirico
Così si esprime il metafisico De Chirico su Gemito, considerato come genio dai suoi contemporanei, prima di sbiadire pian piano verso un’erronea catalogazione pittoresca della sua arte. Il Petit Palais corre ai ripari e ritraccia allora, con ben 120 opere (sue e del suo entourage), la prima mostra monografica su Gemito in Francia, con una dettagliata cronologia della folgorante ascesa e delle vicissitudini di quel precoce ‘mast scurdore’(maestro scultore) dell’anima napoletana che niente dava come predestinato. Con Medardo Rosso, Auguste Rodin e Camille Claudel, Vincenzo Gemito è stato tra i protagonisti innovativi del linguaggio scultoreo ottocentesco in senso naturalista, estrapolando l’anima dalla materia. Da quasi autodidatta, ha attraversato il mondo dell’arte come una cometa e i suoi esordi sembrano dettati dalla fatalità, a cominciare proprio dal suo nome.
Abbandonato dalla nascita e affidato all’Orfanotrofio dell’Annunziata senza alcuna dichiarazione di paternità, fu censito allora nei registri come “Genito” (cioè nato), in seguito trasformato in Gemito per un errore di trascrizione anagrafica. Un’identità casuale quindi, ma un destino che prende una piega più netta in seguito alla sua adozione. Giuseppina Baracca e Giuseppe Bes lo prendono in affidamento dopo il decesso del loro figlio, il padre adottivo muore anche lui qualche tempo dopo e la madre sposa in seconde nozze un muratore, Francesco Jadiciccio (l’amato patrigno spesso ritratto dall’artista nei suoi disegni giovanili). Il mestiere di ‘mastro Ciccio’, influenza Gemito a una sensibilità tutta manuale, condivisa durante l’infanzia col suo coetaneo e inseparabile amico di sempre, ‘Totonno’ (il futuro pittore Antonio Mancini), con cui scambia i confini di pittura e scultura.
La sua iniziale formazione artistica si svolge nella bottega di Emanuele Caggiano (scultore classico) poi, prima dei 10 anni, passa sotto la guida di Stanislao Lista, assimilando con lui i rudimenti dello studio plastico del “vero”. Intraprende all’età di 12 anni la strada dell’istruzione accademica che non si accorda però col suo carattere ribelle. Abbandona presto il Regio Istituto di belle arti per impregnarsi piuttosto della brulicante vitalità dei vicoli di Napoli: gli ‘scugnizzi’ (‘gavroches’ napoletani), il porto, i fabbricanti di presepi o dei bronzi pompeiani (probabilmente il suo imprinting) che Gemito scopre nelle sue assidue scappate al Museo archeologico.
Un punto di partenza dell’arte “gemitiana” è “Il giocatore di carte”(1868), un’opera di straordinario realismo eseguita a soli 16 anni, già così intensa da essere acquistata, all’epoca, dal re Vittorio Emanuele II e raggiungere la collezione del Museo di Capodimonte.
Vincenzo Gemito, Ritratto di fanciulla 1916 © Gianni Cudazzo
Adolescente, Gemito si lega con altri giovani artisti insofferenti all’accademismo, un gruppetto undergroundinstallato nei sotterranei di un chiostro abbandonato e trasformato in atelier: Giovanni Battista Amendola, Achille D’Orsi, Ettore Ximenes, Vincenzo Buonocore, Luigi Fabron e l’amico Antonio Mancini: il suo dipinto “O’ Prevetariello”(1970) è uno dei gioielli contestuali della mostra, squisitamente concepito nello stile dei Macchiaioli.
I bustini in terracotta realizzati da Gemito in questo periodo affascinano… e la scenografia espositiva li evidenzia bene con luci calde. Sono raffigurazioni di mendicanti e popolani, trovatelli come lui, vivacemente accattivanti per l’accenno degli sguardi e la naturalezza degli atteggiamenti. La “Testa di fanciullo”(1871) ha un viso di splendida immediatezza che fa il suo effetto anche stampato sul manifesto della mostra!
“Gli adolescenti popolani ch’egli […] si conduceva in quell’antro afferivano all’impasto mirabile della sua cera e della sua creta magnifici brani di nudità, riarsa dal nostro sole ardente e intinta come nel colore del bronzo” (Salvatore di Giacomo, Vincenzo Gemito: la vita, l’opera, A. Minozzi, 1905).
Negli anni seguenti, la vivacità quasi “pittorica” di queste creature popolane cede a un modello di realismo virtuoso più liscio e curato (di tipo ellenistico): tra l’elegante serie di ritratti bronzei con cui l’artista foggia il proprio nome, spicca nella mostra l’intenso “Busto di Giuseppe Verdi”(1873).
Gemito sbarca a Parigi a 25 anni. La straordinaria espressività del suo classicismo scultoreo reinterpretato in chiave moderna, crea scandalo e sensazione al Salone del 1877 o all’Esposizione Universale del 1878; è invece subito carpita da Rodin e Degas che se ne ispireranno. Il suo magistrale “Pescatorello”suscita allo stesso tempo biasimo e ammirazione per la resa spudoratamente realista e il movimento in tensione della scena. Nella mostra, il grande bronzo originale (museo del Bargello a Firenze) è raffrontato al gesso preparatorio (museo di Capodimonte a Napoli), ispirando un’emozione ancora più forte! Presente anche il celebre “Acquaiolo”(la variante senza pantaloncini del museo d’Orsay del 1881), dalla postura sensualmente oscillante, chiara evocazione dell’Antichità romana, ispirato dal “Fauno danzante”di Pompei (Casa del Fauno).
Vincenzo Gemito_
Il giocatore (1870)
inv. PS203, h.64cm, gesso patinato
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
A Parigi, l’artista assapora il prestigio professionale raggiunto, circondato d’artisti amici e compatrioti, come Antonio Mancini, Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini e maestri francesi allora in voga, come Ernest Meisonnier, pittore del periodo napoleonico che lo ospita nella sua villa a Poissy.
Di ritorno a Napoli nel 1880, un anno dopo la morte per tisi dell’amatissima compagna e modella Mathilde Duffaud (“Testa di Mathilde su un cuscino”, 1878-81), Gemito incontra e sposa Anna Cutolo: nuova musa e ispiratrice di molte opere nonché madre dell’unica figlia dell’artista: Giuseppina che nascerà cinque anni dopo, nel 1885. Il “Busto d’Anna”(1886 ca.) risalta nella mostra: delicato ed espressivo, accompagnato da numerosi studi, è uno dei rari busti eseguiti in marmo (materiale poco adoperato da Gemito). Tra i disegni ritraenti la moglie, spicca invece l’espressivo e sorprendente “Ritratto di Anna”,quello riquadrato all’altezza delle labbra, dove Anna Gemito assomiglia tanto all’attrice Anna Magnani!
Il disegno lo aiuterà a superare in seguito il suo drammatico burn-out, un lungo periodo di autosegregazione (18 anni!) dovuto a una profonda crisi intellettuale, allo stress degli ordini smisuratamente monumentali per il Palazzo Reale e al logorio della follia, tra deliri e digiuni ascetici. Ciononostante, all’esterno, Gemito seguita a raccogliere un vivo successo, confermato dai numerosissimi riconoscimenti ufficiali internazionali (Buenos Aires, Parigi, Anversa…), sino a diventare leggenda:
“Egli aveva nome Vincenzo Gemito. Era povero,nato dal popolo; e all’implacabile fame dei suoi occhi veggenti, aperti sulle forme, si aggiungeva talora la fame bruta che torce le viscere. Ma egli, come un Elleno, poteva nutrirsi con tre olive e con un sorso d’acqua.” (Gabriele D’Annunzio)
Alcune delle sue ultime produzioni grafiche esposte alla VIII Biennale di Venezia del 1909, le ritroviamo al Petit Palais. Dimostrano un ritorno alla “verace” realtà napoletana, resa con le tecniche più disparate, quali la matita, la penna, il pastello e l’acquerello; disegni che non sono semplici bozzetti preparatori ma veri e propri punti d’arrivo: “Zingara”(1885), “Scorfano”(1909), “Ritratto di fanciulla”, (1916). Allo stesso tempo, la straordinaria capacità scultoria di Gemito perdura sino ai suoi ultimi anni, applicata all’oreficeria. Una produzione in cui traspare una conversione dell’artista al nuovo movimento simbolista: fantastico il meticoloso groviglio di capelli del “Medaglione con la testa di Medusa”(1911).
Vincenzo Gemito, 1881 Museo d’Orsay, Parigi © RMN – Grand Palais/Hervé Lewandowski
Vincenzo Gemito ritorna a brillare grazie a questa mostra, in collaborazione con il museo di Capodimonte di Napoli e dove proseguirà dopo Parigi, nel 2020.
Tempo sino a fine gennaio per ammirare le numerose opere qui riunite, le più rappresentative di uno dei maggiori scultori dell’Ottocento italiano, su cui anche l’arte contemporanea si è espressa in modo lusinghiero:
“Sono bastati pochi anni […] per sommergerlo nella nebbia dell’oblio. Gemito era uno scultore appassionato delle cose sublimi e che, in un certo senso, si adattava alle cose più semplici, in apparenza semplici, in realtà profondamente vere […]. A mio giudizio Vincenzo Gemito è il più grande scultore dell’Ottocento […]. Alla scultura servono tre cose: la forma, il mestiere e il genio. Il resto è inutile contorno, esercitazione sterile, inessenziale / Gemito è stato un genio solitario” (Giacomo Manzù, 1979).
Vincenzo Gemito (1852-1929)
Le sculpteur de l’âme napolitaine
Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris,
Avenue Winston-Churchill 75008 Paris
Per un anno da guappi, fai la mòssagiusta: regala buona musica!
Due novità di rilievo da segnalare per la musica italiana. Due gruppi, La Mòssae i Guappecarto’. Due quintetti, uno di donne, l’altro di uomini. Un disco cantato, l’altro strumentale. Generi diversi ma con la capacità di trasportarvi entrambi verso lidi lontani, con storie avvincenti e ritmi potenti. Due album da viaggio ma anche di ritorno. Entrambi impregnati di un’essenza mediterranea che rimanda alle comuni origine ed emozioni dei popoli, ne esalta le culture e ne annulla i confini. Ascoltare buona musica fa bene!
La Mòssa
Cinque voci, cinque donne e altrettante personalità, quelle di Lilia Ruocco, Emmanuelle Ader, Sara Giommetti, Gabrielle Gonin e Aude Marchand. Tutte hanno avuto percorsi diversi, tra teatro, danza, musica, canto, improvvisazione. Il quintetto polifonico formato nel 2015, prende il nome dalla famosa Mossa, il sensuale movimento di bacino e d’anca con rullata di tamburo, inventato dalla sciantosa napoletana Maria Borsa agli inizi del ‘900, ripreso dalla soubrette Maria Campi e interpretato con sensualità esilarante e sovversiva da Monica Vitti nel film di Marcello Fondato: Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa,1970.
Cinque caratteri e un repertorio al femminile variegato di canti e melodie carichi di storie ed emozioni, declinato dalle diverse sfumature dei singolari e complici timbri vocali di ciascuna. Dopo un primo EP, il loro nuovo album a moss’!(La curieuse / L’autre distribution – 2019) è un viaggio musicale plurilingue che vi trasporta dall’Italia all’Occitania, dall’isola della Riunione al Brasile, dall’Argentina all’Albania, sino in Finlandia! Melodie senza tempo, ricomposte e interpretate con carattere e brio, giocando con le influenze, le origini e gli amori musicali di ciascuna delle cantanti. La popolare Mossafa eco anche alle loro virtuose e originali qualità polifoniche quando sono accompagnate da percussioni battenti, come nelle gioiose Dona mariquinhao Tarentella pé sbarià. Due pezzi che rispettivamente introducono e concludono questo generoso disco di ben 13 brani. Una chicca deliziosa è la loro accarezzante versione di Nature Boy,che permette di riscoprire una canzone storica, diventata uno standard del Jazz, scritta nel 1947 da Eden Abhez e resa celebre dall’interpretazione di Nat King Cole.
Ma attenzione, quest’album non si riduce solo a una raccolta di cover!
Alcuni pezzi che alla base non si prestano a essere eseguiti in coro, sono appositamente e creativamente ri-arrangiati in chiave polifonica dal gruppo, come nel caso di Balderrama,canto argentino reso celebre da Mercedes Sosa e armoniosamente riadattato in quest’album.
Il loro, è un modo di cantare figurato, vibrante, sensuale, agitato e coinvolgente (come la Mossa). La loro capacità di rendere fisica l’emozione vocale la si coglie particolarmente nei loro calorosi concerti, dove i corpi cantano e le voci danzano.
Info: www.la-curieuse.com