Nico Morabito tra essai e assai
a cura di Effeffe
Con Nico Morabito ci siamo incrociati in occasioni di presentazioni di libri, di eventi culturali organizzati dalla Tour de Babel o all’Istituto di cultura. Nico ha une vraie gueule, c’è qualcosa di arcaico nello sguardo, nei tratti meridionali, che suggeriscono leggerezza e storia, poesia e vita. Palermitano nomade, autore di documentari, sceneggiatore, da dieci anni residente a Parigi, asseconda la sua vocazione dal forte accento meridionale e con un amore per la pagina anche quando sopra le righe. Lo abbiamo invitato per raccontarci il suo viaggio e i suoi progetti in corso. Sergio Trapani piazza il cavalletto con macchina e la nostra conversazione ha inizio.
Come tanti italiani della nouvelle vague migratoria, venuti a Parigi per trovare il meglio di sé. Qual è il tuo meglio?
Qui ci sono venuto per un progetto cinematografico un po’ surrealista, immaginato insieme a un regista, una storia tra Ucraina e Calabria, un intrigo pazzesco che però non è andato a buon fine. E di colpo mi sono ritrovato in questa città amata ancor prima di arrivarci, attraverso il suo cinema, la trojka Rohmer, Truffaut e Chabrol, o la letteratura. Piccolo dettaglio, non conoscevo la lingua francese e allora potrai immaginare.
Quando si arriva così ci sono due sole possibilità lavorative, professore d’italiano o cameriere.
E pizzaiolo. Ricordo come nelle prime peregrinazioni burocratiche al pôle d’emploi per esempio, quasi mi arrabbiai con l’addetta che voleva propormi a tutti i costi di fare le pizze. “Ma io non so fare il pizzaiolo, non è che basti essere italiano per fare una buona pizza” e così mi sono ripiegato sull’insegnamento. Esperienza che mi è tornata utile qualche anno dopo, quando ho iniziato a curare un atelier d’écriture audiovisuelle all’Università di Nanterre.
Perché l’italiano piace?
L’italiano e noi italiani, aggiungerei. Quasi tutti quelli che si avvicinano alla nostra lingua sono attirati dalla nostra cultura, la dolce vita, dolce far niente, l’eleganza, la bellezza. Credo che in generale sia la nostra apertura, disponibilità all’incontro. Allo scontro. A volte mi capitava per esempio alle feste che amici francesi ci credevano sul piede di guerra, pronti alla lite solo perché i toni erano accesi, il gesticolare ben marcato.
A proposito di bellezza, mi sembra di aver capito che una certa presa su di te ce le abbiano anche le icone del grottesco, quasi del kitsch. Quale delle tue varie esperienze in città come Palermo, Roma, Napoli, ti ha dato questa sorta di sensibilità?
Qualche anno fa ti avrei risposto tutte, ma in realtà credo che sia forte per me il ritorno alle radici, un processo che va di pari passo con il mio sradicamento. Direi che questo “straniamento” mi abbia dato davvero la giusta distanza da cui guardare le cose; mai con un taglio diretto ma sempre di traverso, con un giusto dosaggio di cinismo, ironia. Al telefono ti dicevo di Ciprì-Maresco, delle cui opere mi sono nutrito per tanti anni.
Per studio, tra l’altro ti sei laureato con Abruzzese che è un po’ il pioniere delle comunicazioni di massa in Italia, ti sei occupato anche di televisione. Non hai l’impressione grazie all’esperienza francese che nonostante tutto l’immaginario televisivo rimanga nei fatti molto locale?
Quello che dici è vero e me ne rendo conto avendo lavorato per molti anni alle produzioni italiane e come autore per la rivista Link. Idee per la televisione. In effetti se da una parte certi format passano di paese in paese nella loro idea originaria, poi nei fatti non si tratta proprio della stessa cosa. Prendi per esempio Got Talent, stesso format per l’Italia e la Francia, ebbene, nonostante il quadro, i codici, i dispositivi siano identici, se ti guardi le due edizioni davvero hai l’impressione di trovarti di fronte a due cose che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra.
Mi potresti dire che cosa ti piace di più di questa città?
Una città la conosci solo quando ci vivi e la prima cosa che mi ha conquistato è stata la consapevolezza del fatto che qui tutto sia possibile. Qualcuno potrà ribattermi che anche a Berlino, Londra, è così, ma non lo penso. Qui tutto è possibile a condizione che non stai fermo. Parigi ti chiede tanto e nulla succede senza che sia tu a metterti nella condizione che certe cose succedano a te. C’è un passaggio molto bello nel libro di Andrea Inglese, Parigi è un desiderio dove a un certo punto scrive: “(…) a Parigi o pattini all’infinito, scivolando su tutto e godendoti lo spettacolo, ma come uno spettatore seduto al sicuro fuori scena, oppure ci cadi dentro, non sei “a Parigi”, ma in una delle sue innumerevoli buche, nel tuo piccolo ecosistema locale senza supervisione e sorvolo (…)”.
Parigi all’inizio è stata dura fino a quando non ho capito che bisognava prestarle ascolto. Per me l’emigrazione è la storia di un trapianto di un organo che viene impiantato in un corpo. Ognuno di noi è un organo che può servire o meno a quel corpo ma sicuramente c’è una prova da superare perché non vi sia rigetto. Quel corpo è Parigi e l’organo siamo noi. Una cosa che non capisco per esempio, e che vivo male, è quando incroci persone del nostro paese che sono qui e vivono come se stessero ancora in Italia. Organi senza corpo.
Soprattutto lamentandosi, una cosa che mi manda in bestia ogni volta che incappo in conversazioni del genere.
Idem per me. Quando sento puzza di bruciato la prima cosa che faccio è uscire discretamente dall’inquadratura e darmela a gambe.
Torniamo a Parigi e al tuo lavoro.
Se rileggo anche la mia storia professionale, è qui che è nato il sodalizio con Gianluca Matarrese essenzialmente come autore di documentari. A volte le persone non si rendono conto che la fabbricazione di un documentario comporta molti livelli di creazione in un dialogo costante con la realtà. Per giungere a qualcosa di soddisfacente sono necessari molti passaggi, dallo spunto che il reale ti dà e che tu cogli, alla costruzione di una narrazione che avviene dopo più passaggi perché sia in grado di raccontare quella storia nel migliore dei modi possibili.
Con esiti felici visto che siete riusciti a vincere il primo premio Italiana.doc al Torino Film Festival. Una storia al centro della crisi, non solo economica, che attraversa il paese.
Dopo una lunga gestazione nel 2019 esce il mio primo film come autore, scritto con il regista Gianluca Matarrese. Si chiama Fuori Tutto, ed è coprodotto dall’italiana Rossofuoco (Davide Ferrario e Cristina Sardo) e dalla francese Agat Films/Ex Nihilo(Blanche Guichou). Si tratta di un documentario sull’azienda di calzature della famiglia del regista. A un certo punto l’azienda entra in crisi e finisce in bancarotta facendo esplodere tutti i conflitti interni alla famiglia (si ride e si piange). Questa storia mi ha interessato e via via sempre più coinvolto proprio per la dinamica interna alla famiglia dove per esempio i ruoli maschile e femminile erano completamente rovesciati. Il padre, figura mite, musicista e la madre vera imprenditrice dal pugno di ferro.
La storia di un’azienda e di una famiglia, quella del regista, Gianluca Matarrese che la racconta così: “Fondata nei primi anni Ottanta, la cooperativa di calzature Togo contava una trentina di punti vendita tra Torino e provincia. Fino al 2012, quando quel sogno e quell’impero hanno iniziato a sgretolarsi. Oggi restano due negozi e 450 mila euro di debiti. Ogni mattina i miei genitori e mia sorella si svegliano non sapendo cosa inventarsi. Quando mi sono accorto del disastro li ho raggiunti e ho assistito all’esplosione dei malesseri che per anni avevo fatto finta che non esistessero”.
Nel 2019, come dicevi prima, abbiamo vinto il premio come miglior documentario italiano al Festival di Torino e in questo anno disgraziatissimo abbiamo partecipato ad altri festival. Sempre con Matarrese siamo in fase avanzata con un altro film documentario (abbiamo già avuto l’aide à l’écriture del Cnc): è la storia di un uomo dalla sessualità ipertrofica che a 60 anni decide di dire basta al sesso ma conserva un’amicizia speciale con il suo ultimo amante. E stiamo già ragionando su un terzo film, questa volta di finzione.
E dell’origine del viaggio, cosa puoi dirmi?
Ah, da un po’ di tempo ho iniziato a trascorrere tre mesi all’anno a Palermo. Le famose radici. Non so neanche come definirmi oggi (emigrante? Emigrato?) e se abbia ancora senso pormi la domanda. Con il tempo ho però imparato che le etichette hanno anche risvolti positivi: servono ai francesi, per inquadrarmi meglio e agevolare l’innesto in un posto che non era il mio. E servono anche a me, perché alla fine di tutti questi sradicamenti qualche punto fermo è necessario. Faccio parte di un gruppo di privilegiati: la mia emigrazione non è scaturita da una questione di vita o di morte. Ho solo cercato delle condizioni esistenziali e lavorative migliori, ho faticato e alla fine le ho trovate. Malgrado io abbia sempre allontanato da me l’immagine seppiata dell’emigrato che rimpiange un’età felice forse mai esistita, ho scoperto di avere molto in comune, per esempio, con i figli dei piemontesi che cinquant’anni fa negavano la casa ai terroni, e che oggi sono a loro volta emigrati e si lamentano, in un ironico cortocircuito, del modo in cui i francesi li trattano. E, nel gioco di partenze e ritorni, ho capito che alla fine tra me e mio padre non c’è grande differenza: lui andava a sentire il cantante Salvatore Adamo, emigrato in Belgio, io vado ai concerti parigini di Max Gazzè, che dal Belgio è tornato in Italia. Ma la più grande consapevolezza è stata scoprirmi siciliano. È sempre la Sicilia che riappare, nei luoghi, nei desideri, nei sospiri. Dopo anni trascorsi a rinnegare le mie radici con una violenza almeno pari a quella a cui ero stato esposto negli anni della mia formazione, ho realizzato che mi piace andare alla rosticceria siciliana che c’è in rue Mouffetard solo per annusare l’aria di casa, come un tossico che si era dimenticato di esserlo, mi piace parlare di Mondello e Favignana, mi piace incontrare altri miei conterranei assecondando la reciproca e illusoria voglia di ricordi comuni. Mi piace proprio essere siciliano, perché mi piace la Sicilia vista da qui e mi piace persino l’immagine artificiale della Sicilia filtrata dagli occhi degli stranieri. Non avrei mai pensato che potesse accadere. Chissà, magari un giorno potrò dire lo stesso dell’Italia.
Da Rue du Roi de Sicile è tutto.