Opulenza e necessità

La coesistenza di due cucine in Liguria

di Alessandra Pierini

Liguria, un territorio dalle mille sfumature, uno stretto lembo di terra incastrato tra il Mediterraneo e le creste degli Appennini che qui si incontrano in modo armonioso, dando vita ad una straordinaria tavolozza inondata da una luce che rende unico il suo fascino. 

Case multicolore, orti arrampicati tra il porto e i vicoli, tra gli ulivi e i pescherecci, tra la foschia dell’entroterra e lo scintillio del mare. 

Genova, il suo capoluogo, metropoli cinquecentesca, non ha mai cessato di sbalordire tutti quelli che hanno scoperto la sua magnificenza, soprattutto esploratori, artisti, viaggiatori, arrivando dal mare. E anche tanto di quello che i genovesi hanno messo in tavola nei secoli viene da lontano e porta con sé il profumo di altri mondi, soprattutto influssi arabi, siculi, spagnoli.

Genova in cucina sfida l’evidenza: è una città di mare ma pesca pochissimo, ha montagne particolarmente scoscese e irraggiungibili, non ha campi estesi né pianure feconde. All’interno di questo contesto, esiste un contrasto che permette a due differenti cucine di coesistere, quella dell’opulenza e quella della necessità.

Genova, pur essendo stata per secoli una grande potenza marittima nel cuore del Mediterraneo, mare di acciughe e tonni, di seppie, totani e naselli, i suoi cittadini furono più commercianti e navigatori che pescatori di questo mare infuriato, traversato da venti e correnti, difficili da dominare. I prodotti esotici, le spezie, le carni opulente, le ricette complesse da esibire prendono il posto del pescato in una cucina cittadina patrizia riservata a pochi. 

La campagna plebea, la ruralità dei paesi dove non si vede più il mare, anche se a pochissimi chilometri dal capoluogo, si nutre soprattutto grazie ai boschi e a tutto quello che la natura spontanea poteva offrire: numerosissime erbe aromatiche, funghi, lumache, castagne, olive, uva, frutta… Per secoli i liguri hanno trovato nei cortili delle campagne e negli orti familiari, delle materie prime poverissime che hanno saputo trasformare in grandiosi piatti. Su queste basi, si è andata mano a mano ad affermarsi una cucina salutare, sempre più di terra che di riviera, dove l’elemento vegetale, con la sua freschezza e genuinità, ripagava i marinai che, durante i lunghi soggiorni in mare, si cibava di gallette dure, di prodotti secchi, di conserve che avevano come scopo quello di durare senza degradarsi. Elementi questi che, comunque, sono stati alla base di numerose ricette ancora oggi cucinate come la cappunadda (una delle più antiche insalate dei marinai a base di gallette secche, mosciame di tonno o di delfino, alici sotto sale, olive, cipolla e, più raramente, bottarga di tonno), il condijun (insalata molto simile alla nizzarda ma con l’aggiunta di patate e fagiolini lessi) e il capponmagro (una complessa composizione barocca di verdure e pesce costruita sulla base della tipica galletta secca del marinaio).

Una cucina che propone da secoli cibi di strada o fuoripasto da mangiare dentro ai cartocci, fritture di tutti i generi, tra cui i tradizionalissimi frisceu fatti di sola acqua e farina, la sardenaira, una pizza in teglia con pomodoro e acciughe, la sbira, una zuppa di trippa. Questo modo di mangiare, che oggi è ritornato gioiosamente alla ribalta e che coincide perfettamente con il modo di mangiare moderno, una volta era il cibo degli scaricatori del porto che si nutrivano rapidamente sul posto con una cucina economica, comoda e appagante.

Con tutto quello che offre l’orto si fanno torte, polpettoni, verdure ripiene, frittate e i ravioli di magro, i tondeggianti pansoti, che, se preparati in primavera, contengono il prebuggiun, un insieme di 32 erbe selvatiche molto gustose e profumate.

Con farina, acqua, lievito, sale e il meraviglioso olio d’oliva, si prepara la focaccia, compagna inseparabile che si inzuppa persino nel latte a colazione, sempre appena sfornata, molto unta, morbida e croccante come solo la magia dei panettieri genovesi riesce a fare. E se non c’è lievito, si fa la mitica focaccia con il formaggio: qui due sottilissimi strati di pasta che racchiudono uno dei pochi formaggi locali, la prescinseua, dalla consistenza tra lo yogurt e la ricotta. Quando c’è la farina di ceci, mescolata ad acqua, si fanno la farinata, come una torta salata molto sottile, e la panissa, più spessa, tagliata a cubotti e fritta.

Il pesto è il caposaldo della cucina genovese e solo a Genova, ogni due anni, non poteva che andare in scena il Campionato Mondiale del Pesto al Mortaio, manifestazione organizzata dall’Associazione Palatifini e dalle autorità liguri che proclama il miglior pesto e pestaiolo. Il rito è sempre lo stesso: a tutti, riuniti nella più prestigiosa sala di Palazzo Ducale, vengono consegnati gli ingredienti e l’indispensabile mortaio di marmo con il pestello di legno. Questa salsa tra le più conosciute al mondo, in lizza per la certificazione all’Unesco, per essere la più alta rappresentazione della «genovesità» deve rigorosamente essere preparata con basilico genovese, pinoli, aglio di Vessalico (Imperia), pecorino Fiore Sardo, Parmigiano Reggiano, sale grosso di Trapani ed olio extra vergine della Riviera Ligure. Una salsa che si prepara e si utilizza a freddo e che si sposa a perfezione con la pasta (trenette, trofie, corzetti, croxetti, gnocchi, lasagne, chiamate a Genova mandilli de saea, cioè fazzoletti di seta per la loro finezza) ma anche con il minestrone e, ancora meglio, preparato con lo scucuzzu, una pastina di semola di grano duro molto simile alla fregola sarda.

Il pesce si presenta sotto forma di burridde (con pezzi di pesci vari cucinati in umido, con funghi, capperi, pomodoro), zuppe, zemin (intingolo di soffritto, verdure e pomodoro che sta alla base di una minestra di baccalà o di seppie ma anche di ceci o fagioli), brodetti, ciuppin (passato di verdure e pesce piuttosto cremoso), vicino agli onnipresenti stoccafisso e baccalà, arrivati oltre quattro secoli fa dai paesi nordici. Le alici, pescate con i gozzi (piccole barche di legno difficilmente affondabili) quando il mare lo permetteva, erano pulite e preparate a bordo in conserve (in genovese, le arbanelle) e mantenute sotto sale. Erano poi vendute dalle mogli dei pescatori, che le portavano nell’entroterra fino al Piemonte.

In una terra che può apparire introversa e austera, ci sono anche molti dolci che i genovesi preparano da secoli. Sono piuttosto ricette che appartenevano alle famiglie più agiate perché gli ingredienti come il burro, lo zucchero risultavano, all’epoca, molto costosi. Tanti biscotti come amaretti (a base di mandorle dolci e amare), anicini (da inzuppare con i semi di anice), canestrelli (a forma di margherita con il buco e con tanto burro), i biscotti del Lagaccio (fette biscottate leggermente zuccherate che prendono il nome di un quartiere del ponente genovese e prodotte dal XVI° secolo), gli antichi quaresimali (tipici della Quaresima a base di pasta di mandorle e acqua di fiori d’arancio) e la torta sacripantina (a base di pan di Spagna con differenti strati, farcita con una crema al burro, una al cioccolato e nocciole e liquore).

Una grande tradizione di frutta candita, confetti, confetture, una deliziosa acqua di fiori d’arancio e sciroppi di fiori vengono a completare questo ricco patrimonio culinario.