Superba per uomini e per mura
testo di Fabrizio Venerandi, Foto di Matteo Galiazzo
Oggi mio figlio è entrato nel mio campo d’azione, si è seduto in cucina e non era più un bambino come ieri, aveva la forma di un ragazzo. Stava zitto, faceva espressioni con la faccia che non gli conoscevo. Gli ho chiesto se voleva il latte con il cioccolato e lui mi ha risposto qualcosa che non ho sentito.
Dicono che la caduta nel vulcano non sia dolorosa.
Esco e vado a prendere terzogenita, guido lentamente nelle arterie principali di Genova. Supero – a fatica – lo stadio di Marassi che oggi è presidiato da poliziotti in tenuta antisommossa, sembra uno spin off del G8 del 2001. I tifosi sono dappertutto attorno allo stadio, sembrano le formiche quando alzi le pietre, si muovono in branco, urlano, occupano la strada perché oggi quel pezzo di città è loro, la legge non riuscirebbe a fermarli. Nei sedili dietro micio non dice niente, è zitto nella portantina e respira velocemente.
Lo stadio è un cubo arancione che l’abitudine a vederlo vira al grigio come tutto quello che lo circonda. È stato costruito a fianco al carcere, come fossero due fratelli divisi alla nascita. Di fronte c’è il Bisagno, un fiume che è perennemente in secca o in piena alluvionale. Non ha mezzi termini. Ora è fatto solo di pietre e terra, si vedono i cinghiali che lo percorrono, richiamati dal suono vorticoso e lontano del vulcano.
Allo stadio c’è una partita, i tifosi camminano, due donne vestite come visto in tv passano con i loro figli di sei/sette anni che urlano, stanno urlando con la faccia rabbiosa e le madri ridono e si lanciano occhiate fiammeggianti e io abbasso il finestrino per sentire e vedo questi due bambinetti che urlano «juventini merdee!, juventini merdee!», stringendo i pugni e con la faccia deformata dalla rabbia continuano a camminare urlando «juventini merdee!», le madri dietro li guardano con fierezza e io rialzo i finestrini e dico «ottimo, ottimo» e proseguo il mio viaggio in mezzo alla sofferenza.
E penso che tutto questo sarà lungo da rimuovere, questo ricordo, questa merda, ci vorranno piccoli interventi, strategie a corto respiro, ci vorrà. Ci vorranno dei raggi per capire, e se i raggi non basteranno, e non basteranno, ci vorrà una tac, dice poi il veterinario e io passo una mano sul pelo di micio che sembra posata sullo scheletro.
Penso agli ultras e al loro onore da sottoproletariato fascista. Mi sento superiore e stanco, mi sento stanco, mi sento incapace di essere niente di diverso da loro. Mi sento come loro.
La cosa del vulcano ormai è diventata normale, il sindaco di Genova ha detto che si tratta di un fenomeno dovuto alla corruzione delle precedenti giunte e che i cittadini genovesi devono convivere con questo nuovo vulcano sbocciato in piazza De Ferrari. È un vulcano detto “biologico”, ovvero composto prevalentemente di carne, dentro al vulcano ribolle un liquido rosso e denso che sembra sangue ma che invece sono proteine della pelle.
Mio figlio dice che il vulcano è una novità e che dobbiamo andare al nord prima che sia troppo tardi. Che comunque lui ci andrà, è una settimana che si sta preparando lo zaino. Stoccolma, un anno di Erasmus a Stoccolma e se non bastasse ancora più in su. Stavenger, al limite della grande risorsa petrolifera della Norvegia. Un ammasso di animali morti e conservati sottoterra per migliaia di anni, ecco le grandi risorse umane: le carogne.
Vado verso la periferia di Genova, i denti del pettine. Genova è un’invenzione fascista. La Grande Genova, prendere pezzi di città e attaccarli assieme, ne viene fuori un pettine. La parte centrale che dà sul mare e i denti che si infilano nelle vallate, incomunicanti gli uni con gli altri. Più ti allontani dal centro più Genova va a pezzi: il cemento armato si sfalda, appare il ferro arrugginito dei tondini, i marciapiedi si spaccano, corrosi, asfaltati anche loro. Spariscono. Tutto diventa a scorrimento veloce, inumano. I palazzi sembrano dighe, le dighe crollano.
Nella strada principale vedo i manifesti per le prossime elezioni, un sacco di gente di centrodestra che mi sorride gentile indossando vestiti da ufficio. Mi fermo al semaforo. Sono decine e decine di manifesti con questi uomini e queste donne giganteschi con i simboli di Alleanza Nazionale, di Forza Italia, di Bucci e Toti, tutti mi sorridono enormi mentre scatta il verde e io parto. Un tempo Genova era rossa, era una città comunista.
Sopra alcuni di questi manifesti ci sono dei faretti per l’illuminazione notturna. Ora sono spenti. Li conto, sono sei faretti. Guardo la carta, la colla, lo spazio preso. Mi chiedo, in astratto, quanto impatti la pubblicità. Quanta energia venga consumata ogni giorno per convincere le persone ad acquistare un prodotto. Non a produrlo: a convincere le persone a sceglierlo.
Quanti server consumano energia per fare invii massivi di spam, per fare ricerche fuzzy e spostare i messaggi di spam nelle cartelle dell’indesiderata, quanti jpg, gif animate, stampe in quadricromia, ore e ore di brainstorming di copy, carta lucida tagliata piegata e messa nelle cassette, impilata in magazzini, luci puntate, video montati, caricati, infilati tra un video Youtube e l’altro.
Deve essere una quantità di energia enorme, un numero sproporzionato di risorse che ogni giorno vengono consumate per convincere la gente a scegliere un biscotto ai cereali, una banana bio, un candidato di Alleanza Nazionale, un detersivo sbiancante, un’automobile intelligente, l’abbonamento a qualcosa, per qualche tempo.
La gente è attirata naturalmente dal vulcano, molti hanno colto l’occasione per farla finita. Altri invece ci buttano dentro della roba; piccioni con le ali legate, gatti, sassi. Il vulcano prende tutto, mescola, mastica e ribolle.
E cresce.
In altezza e in larghezza, sta prendendo possesso della piazza, visto dall’alto sembra un grosso brufolo che sta per scoppiare, è rosso, è irritato, secerne del liquido schiumoso. Anche gli uccelli sono attirati dentro quel buco.
Attorno a lui danzano – mossi dal vento freddo – gli addobbi del natale 2023, le luci colorate attaccate dal comune ai palazzi scuri di via XX Settembre. Le fondamenta dei palazzi, sottoterra, silenziosamente fanno entrare nel marmo poroso i liquami animali del vulcano, che si contrae e spacca la terra e le pietre come se avesse uno schifo irraccontabile.
Rallento, scalo. Mi fermo. Vedo mia figlia fuori dalla scuola, siamo tornati nella zona centrale, pericolosamente vicino al vulcano. Via Galata, i pochi passanti evitano i cinghiali che confusamente procedono verso De Ferrari a piccoli gruppi. Appena terzogenita mi vede mi corre incontro. «Hai dell’acqua?» chiede immediatamente e senza dire altro prende la borraccia di metallo dal mio zaino e inizia a bere senza nemmeno prendere pausa per respirare. Sembra che stia suonando la tromba. Quando ha finito inspira; espira. Mi rende la borraccia. «Buttala pure via – le dico – ormai è vuota».
Lei ride, la mette a posto, e poi dice che oggi hanno parlato proprio di quello. «Uh, di cosa?». Lei si siede accanto a micio e non mi guarda nemmeno. «Di come dobbiamo salvare il mondo, ecologia, cose così» mi spiega. «Ci pensate voi quindi?» chiedo mettendo il mio. «A cosa?» chiede lei. «A salvare il mondo» dico e lei fa un sorrisino, non mi risponde.
Mentre guido mia figlia guarda micio, capisce che sta morendo ma non capisce la morte. Fa piccoli versi, lo tocca.
Da lontano, oltre lo stadio, vedo il cielo arrossarsi come un pezzo di carta che sta per prendere fuoco: sono i bagliori del vulcano che scaldano l’aria e bruciano l’ossigeno. Poi tutto torna al solito gelo, nell’aria ondeggiano i fiori di cenere.
Tornando indietro sterzo, mi fermo. «Che fai?» chiede lei. «Che ne dici di andare in spiaggia a cuocerci un po’ al sole?» le propongo e lei manda un urlo. Metto la prima, mi rimetto nel flusso. Per andare in spiaggia vado verso Quinto, abbandono il centro di Genova dove il mare è intoccabile e tossico. Si guarda soltanto. Vado nelle zone di Genova dove la gente non si sente davvero genovese. Dove la gente, quando va in centro, dice “vado a Genova”. Arterie.
Posteggio e mia figlia dopo due minuti è con i pantaloni alzati a correre nell’acqua. Osserva la linea dell’orizzonte, segue i suoi pensieri, corre. Io la guardo da distante, vedo la spiaggia, vedo i colori, le pietre, la spazzatura portata dal mare, gli altri genovesi messi qua e là.
Tutti voltati verso il sole che scende, il mare, la terra: questo prodotto che è incomunicabile, che non c’è in nessuna reclame e permane, nonostante tutto. Da quando? Miliardi di anni. Masse di acqua e terra e aria che premono verso il basso questo delirio che siamo.
Dietro di noi il vulcano, davanti il sole: è tutta una questione di scelte.
Intanto terzogenita mi chiede se può buttarsi in acqua, che è tutto bellissimo.