Venezia sospesa?
di Alessia Bonannini
Alle elementari imparavamo a memoria una poesia di Diego Valeri dal titolo «Venezia». La seconda strofa, a coronare la visione celestiale di una Venezia magica e opalescente, finiva cosi: «tutta sospesa tra due turchini / quello del mare e quello del cielo».
Io mi sentivo in colpa perché tutto ‘sto turchino non lo vedevo.
Non vedevo neanche la sospensione. Non quella.
Da allora mi è rimasta l’impressione che ci fossero due Venezie : quella rosa e azzurra, luminoso-eterea e sfarzoso-trionfante della banda di Diego Valeri, e quella verdastra, marcio-umida, torbido-sommersa della mia – toscana di nascita, veneziana di adozione, diffidente di quelle acque matrigne.
In quanto bande avversarie, le ho sottoposte per anni a regole strette e patti di fedeltà.
Ho messo nella banda di Diego Valeri : molto Veronese, specialmente quelle donne dalla fronte bassa, il petto largo, bionde e rosate come putti giganti; molto barocco, riccioli, volute, bugnati e pinnacoli, quindi no la basilica della Salute, no Longhena; i palazzi simmetrici, compiuti e sfavillanti in marmo o pietra d’Istria (e qui passano diversi palazzi del canal Grande, tranne Codussi che mi sembrava più delicato); quasi tutto il ‘700 svolazzante, lezioso e vedutista, a parte Tiepolo figlio, Piazzetta, Rosalba; le foto del Carnevale di Fulvio Roiter; il ponte di Rialto e il ponte dei Sospiri e la loro estetica da portachiavi; quasi tutti i dipinti ad acquerello; eccetera.
Nella mia: Palazzo Venier dei Leoni, il cui mozzicone di facciata è diventato il limite del giardino incantato di Peggy Guggenheim; Cà da Mosto e quegli archi bizantini antichissimi, che resistono muti al carico di successive sopraelevazioni; tutte le asimmetrie, i rimpasti, i reimpieghi, le cuciture, le patere zoomorfe, religiose e araldiche; la chiesa dei Gesuiti che non te l’aspetti che una facciata ti sovrasti così all’improvviso, tangente, mentre già si percepisce un diradarsi del tessuto urbano, l’avvicinarsi del limite della città e della laguna nord; il selciato di mattoni a spina di pesce davanti alla chiesa della Madonna dell’Orto, che sembra posato come tappeto prezioso sul pavimento grigio di masegni; Zoran Music che come Turner e Tintoretto ha rinunciato a ritrarre Venezia, ha distolto gli occhi dalla Medusa; Brodsky che le ha messo le mani in pancia; i giardini della Biennale, luna-park esotico a luci intermittenti nella foresta sottomarina dell’East-end; il dinosauro che dal deserto del Teneré è approdato in Canal Grande, nel quartier generale dei Turchi; Palazzo Fortuny e le sue palpebre pesanti; il ponte dell’Accademia, provvisorio da quasi cento anni; la porta d’acqua sul retro del teatro la Fenice con la pensilina austroungarica; i gatti, lo skyline notturno di camini, la luna e l’Oriente di Hugo Pratt; i dipinti di Hieronymus Bosh che nessuno vedeva finché erano custoditi a Palazzo Ducale, ora sterilizzati alle Gallerie dell’Accademia; la casetta decorata con le palle di cannone austriache in campiello San Fantin; il ponte storto che si chiama « ponte storto » e la calle dietro la chiesa che si chiama « calle drio la chiesa »; il campanile della chiesa di Santo Stefano che ho contemplato per ore dalla finestra della mia camera per accorgermi solo molti anni dopo, quando in quella casa non ci abitavo più, che pende più della torre di Pisa.
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